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IL REPORTAGE

Latakia: città di alawiti e cristiani, minoranze perseguitate

Reportage dalla Siria, dove gli omicidi dei membri della comunità alawita non cessano nemmeno oggi. Disoccupazione alle stelle, colonizzazione di altre regioni siriane e paura dominano questa città portuale.

Esteri 07_10_2025
Porto di Latakia (foto di Elisa Gestri)

Di buon mattino il nostro hotel ci fornisce un autista con una macchina di grossa cilindrata: lasciamo Damasco per Latakia e ci aspettano più di 330 chilometri su un’autostrada che non ha nulla a che vedere con quelle europee. A Latakia avevamo appuntamento con una persona della comunità alawita che la sera prima ci ha suggerito di rimandare: sono appena stati ritrovati i corpi di tre giovani rapiti, ci dice al telefono, e nelle campagne di Hama hanno ucciso quattro muratori che tornavano dal lavoro. L’atmosfera in città è tesa e lugubre, meglio vederci in altro momento. Acconsentiamo a malincuore a non partire, quando veniamo contattati da un’altra persona della stessa comunità che ci invita a sua volta a Latakia: con le dovute cautele, partiamo come previsto. Mentre siamo in viaggio ci raggiunge la notizia che le elezioni politiche, programmate per settembre e poi rimandate, avranno luogo nel giro di due giorni.

La Nuova Bussola Quotidiana ha dato recentemente conto nel dettaglio del meccanismo iniquo che, secondo le dichiarazioni ufficiali, regola queste elezioni di cui, peraltro, la gente del posto non sembra sapere nulla.

Si apprende dai siti ufficiali che per la prima volta dal 1947 si presenterà per il Parlamento un candidato ebreo, tale Henry Hamra, siriano con cittadinanza anche americana. I recenti incontri di al Sharaa con personalità del mondo ebraico a New York non mentono: compiacere Israele (che peraltro sta continuando operazioni belliche in varie zone della Siria) sembra in cima all’agenda del nuovo regime siriano.

Latakia, già Laodikeia per i greci e Laodicea per i romani, è il più grande porto della Siria assieme a Tartous. In tutta la regione costiera si concentra la minoranza alawita, oggetto correntemente di gravi persecuzioni ad opera del regime islamista di Ahmed al Sharaa.

Ci accorgiamo presto che il viaggio non sarà una passeggiata: lungo la strada conteremo più di dieci posti di blocco presidiati da uomini armati del governo di Hayat Tahrir al Sham o da milizie che lo fiancheggiano. La nostra auto con targa di Damasco è un lasciapassare ai checkpoint, posti pericolosi da cui negli ultimi mesi centinaia di persone sono sparite dopo essere state tratte in arresto. Gli armati indossano uniformi di varie fogge; alcuni sono in nero, altri in grigioverde con la bandiera della nuova Siria cucita sulla manica. Turbanti e volti coperti sono frequenti, ma la vera costante sono le armi: kalashnikov, pistole, granate, coltelli quelle visibili. Il nostro autista esprime apprezzamento nei confronti delle forze dell’ordine ma spinge costantemente sull’acceleratore, come a volersi togliere dalla strada il prima possibile; si sofferma ad ogni checkpoint, ottiene il cenno di assenso e riparte di corsa. Grazie al suo sangue freddo nessuno ci ferma, e non era scontato.

Arrivati a Latakia, la prima cosa che colpisce è l’assenza di veli e hijab: giovani o meno giovani, le donne portano capelli lunghi e sciolti sulla schiena. Ci accolgono due “giovani alawiti disperati”, così ci chiedono di scrivere, un ingegnere e un avvocato, che ci accompagnano in un caffè poco lontano dove ci aspetta Suleiman (nome di fantasia), il nostro contatto. Il tempo di ringraziarlo e cominciamo la nostra intervista ˗ non ci sentiamo al sicuro ed è meglio fare in fretta.

Signor Suleiman, che aggiornamenti ci sono sulla situazione degli alawiti a Latakia e nella regione costiera?
Non c’è nulla di nuovo. Stiamo aspettando che la Siria venga divisa in pezzi  ˗ il ”federalismo” di cui si è parlato tanto. Io personalmente spero oramai nell'indipendenza della costa e delle regioni limitrofe, che comprendono parti del territorio di Hama e di Homs.

Stanno continuando i massacri delle minoranze nella regione?
Ieri tre ragazzi sono stati torturati e uccisi e i loro corpi buttati sul ciglio della strada a Hayalin, nella campagna tra Latakia e Hama, e ieri un altro ragazzo poco lontano, tutti alawiti. Due giorni fa, a Wadi al-Nasara, (la Valle dei cristiani, i nasara, cioè i nazareni, ndr) già gravemente danneggiata dagli incendi, sono stati uccisi tre ragazzi greco ortodossi. Come vede continuano  i massacri “a macchia di leopardo”, un po’ qua un po’ là,  che nascondono stragi sistematiche. Ho trovato un termine per definirle: democidio, sterminio di un popolo.

A proposito di incendi, com’è ora la situazione?
Gli incendi dolosi nella zona tra Latakia e Hama vanno avanti dall’estate: ormai il 70% delle foreste è distrutto. La motivazione reale dietro a questo fenomeno è semplice: distruggere l’attività agricola e l’allevamento dei contadini alawiti e cristiani residenti delle valli   e obbligarli a "traslocare". Si tratta di una nota tecnica ottomana sperimentata nei secoli.  Vorrei però parlare di un altro fenomeno di cui non si dice nulla.

Prego, dica pure.
La disoccupazione, la mancanza di lavoro, dunque la povertà di queste zone. Subito dopo la caduta di Assad sono iniziati i licenziamenti in massa: ecco, continuano tuttora, e se si va a reclamare ci viene risposto per umiliarci: “vattene a cercare  lavoro a Deir Ezzor”, che è dall’altra parte del Paese, al confine con l’Iraq. Non solo, personale dal resto della Siria viene mandato a lavorare qui da noi: ieri con mia moglie siamo stati all'ufficio immigrazione, per lei era la prima uscita da molti mesi ma avevamo bisogno di sbrigare alcune pratiche. Ebbene, tutti gli impiegati erano di fuori Latakia, ho sentito molto accento dell'est del Paese. Il capoufficio invece, un alawita di qui sempre perfettamente rasato con capelli corti e baffetti, ora ha una lunga barba.

Salutiamo Suleiman e ci spostiamo con i nostri due “alawiti disperati” verso il porto, bombardato da Israele all’indomani della caduta di Assad. In quell’occasione IDF affondò sei navi della marina militare siriana distruggendo parte dello scalo.

Proprio di fronte alle banchine sorgono la chiesa e il convento francescani del Sacro Cuore, risalenti al 1829 (ma la presenza francescana a Latakia data dal 1773). Ci avviciniamo al portone e chiediamo il permesso al sacrestano di fare una foto da fuori, permesso subito accordatoci. L’operazione però non passa inosservata: un giovane in borghese, che in apparenza sta aspettando l’autobus seduto su una panchina, si alza e ci chiede cosa stiamo facendo. Rinculiamo verso la chiesa, dove sta per iniziare la Messa: vorremmo parlare con i sacerdoti ma il momento non è propizio. Arriva un drappello di suore, con cui ci intratteniamo brevemente. Sono allegre, come solo alcune suore sanno essere, mentre ci raccontano dei danni che hanno subito negli ultimi tempi. «A noi personalmente nessuno ha fatto del male, ma abbiamo una casa sopra Latakia, che utilizziamo per ospitare gruppi, in cui qualcuno è entrato a rubare per tre volte negli ultimi mesi. Hanno portato via tutto: dai mobili ai sanitari, dalla biancheria alle lampade agli scaldabagni, fino ai fili elettrici. Le prime due volte abbiamo riparato i danni, reintegrato tutto e riaperto la casa, ma dopo il terzo furto l’abbiamo chiusa definitivamente. Non possiamo permetterci un altro esborso». Che Dio vi benedica, pensiamo tra noi guardandole entrare ordinatamente in chiesa per la Messa.

Mentre aspettiamo l’appuntamento con il nostro autista, che come previsto ci riporterà a Damasco, ci intratteniamo ancora un po’ con i giovani alawiti. «Non avete paura?» chiediamo loro. «Paura no» affermano con appena un filo di spavalderia, «ma siamo stanchi di non lavorare, di non poter far niente dalla mattina alla sera. La vita è veramente pesante così». Ci tornano alla mente le parole di un’altra suora che abbiamo incontrato a Damasco, che parlando delle persecuzioni degli alawiti ci disse: «È vero che un po’ raccolgono quello che hanno seminato, ma questo si può applicare ai loro capi, non al novanta per cento della gente che non ha fatto nulla di male. Il punto è che al Sharaa, e chi la pensa come lui, non conosce perdono: è un concetto estraneo all’ideologia islamista».

Risaliamo in macchina e rientriamo a Damasco un po’ più consapevoli, per averlo visto da molto vicino, di cosa significhi la “nuova Siria”.