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CRISI

La Turchia è il nuovo crocevia dei conflitti

Un nuovo attentato ha colpito la capitale della Turchia. Quasi trenta i morti, tutti militari, a poca distanza dal Parlamento. L'attentato è attribuito all'Ypg, l'esercito curdo siriano, che però nega. Il problema è che la Turchia si trova al centro di tutti i conflitti internazionali. E per questo sta perdendo anche la sua libertà.

ADESSO APPOGGIAMO AL QAEDA? di G. Gaiani

 

Esteri 19_02_2016
L'attentato ad Ankara

Ankara è di nuovo in fiamme, la Turchia è stata ancora colpita al cuore, ieri notte. L’attentato di Suruç, nel luglio del 2015, pareva essere l’evento terroristico dell'anno. Poi è arrivato il duplice attentato suicida alla stazione di Ankara del 10 ottobre 2015, che lo ha battuto per vastità dei danni e pesantezza del bilancio delle vittime: 102 morti, il più grave della storia recente del paese. Poi è stata la volta di Istanbul, un attentato suicida non devastante quanto quello di Ankara, ma nel cuore turistico, a poca distanza dalla Moschea Blu e dalla cattedrale-museo di Santa Sofia. E infine, ieri, a completare il quadro di questo annus horribilis, le bombe dei terroristi hanno ucciso 28 militari e ne hanno feriti più di 60, nel centro della capitale, nei pressi del Parlamento e della sede del Premier. Se a questo si aggiungono una serie di attentati e imboscate di più ridotte dimensioni, in Kurdistan (anche ieri un convoglio è stato colpito presso Diyarbakir: 6 morti fra i militari), possiamo constatare come la Turchia sia diventata un grande campo di battaglia. Sarebbe un errore attribuire tutti gli attentati ad un’unica matrice. Sono tre le forze in campo: Isis, curdi e governo turco, gli uni nemici degli altri.

L’attentato contro i militari, ad Ankara, è, stando alle autorità turche, opera dell’Ypg. In particolar modo sarebbe responsabile un curdo siriano, Saleh Najer, entrato nel paese come profugo di guerra. L'Ypg nega ogni responsabilità nell'attentato. Ma avrebbe tutte le ragioni per averlo compiuto. Dietro questa sigla c'è l’esercito curdo che combatte nel Nordest della Siria, contro le milizie jihadiste dell’Isis. E’ opinione comune dei curdi siriani che Ankara stia aiutando il Califfato. Non solo: anche fra i curdi di Turchia, soprattutto quelli inquadrati nel Pkk, le stragi di Suruç (dove le vittime erano curde) e quella di Ankara a ottobre (vittime pacifiste, filo-curde e curde), sono opera del governo, benché siano entrambe rivendicate apertamente dall’Isis. Giusta o sbagliata che sia (molto più probabilmente è falsa), questa teoria della “strategia della tensione” infiamma gli animi. La ripresa della guerriglia nell’Anatolia orientale ed ora l’attentato ad Ankara contro i militari, possono essere letti in questa chiave: una “vendetta”.

Parallelamente a questo conflitto grave fra curdi e turchi, c’è, appunto quello fra curdi e Isis. Che non si combatte solo sui campi di battaglia siriani, ma anche a colpi di attentati in Turchia. Se non si tiene conto delle teorie del complotto del Pkk sulla strategia della tensione e si dà ascolto alla versione dei fatti fornita da Ankara, infatti, sia la strage di Suruç che quella di Ankara sono state commesse dall’Isis, senza alcun appoggio esterno. L’Isis mira a seminare morte fra i nemici curdi, negando loro il “santuario” turco e al contempo punta ad esacerbare il conflitto turco-curdo. Poi, però, c’è anche il conflitto diretto fra Isis e governo turco. Come i bombardamenti turchi in Siria e Iraq, a cui il Califfato risponde con attentati sempre più mediatici, fra cui quello a Istanbul, per rovinare l’industria del turismo.

Infine, ma non da ultimo, la Turchia, più ancora che l’Ucraina, sta diventando il principale terreno di scontro fra Nato e Russia. Il paese è membro storico della Nato e l’abbattimento di un cacciabombardiere russo, nel novembre scorso, rappresenta il primo incidente militare letale fra Nato e Russia da più di mezzo secolo. Benché la crisi sembri rientrata del tutto, lo è solo in parte. Fra Turchia e Russia la tensione resta al calor bianco, perché le due potenze hanno interessi opposti in Siria. La Turchia è alla testa del fronte politico anti-Assad, la Russia è alla testa del fronte politico pro-Assad. La Turchia vorrebbe stabilire la sua area di protezione militare nel Nord della Siria, in territori il cui controllo è prioritario per Assad e dunque anche per la Russia. Mosca è molto abile ad alzare i toni e in questi giorni parla, fin esageratamente, di possibile “conflitto generale” in caso di mosse avventate da parte della Turchia (e dell’Arabia Saudita). Ma proprio questi toni esagerati, incendiari, urlati, rivelano che la posta in gioco è molto alta. 

La Turchia sta diventando un campo di battaglia, una terra di conflitti incrociati, perché si ritrova, anche fisicamente, al centro di tutte le tensioni. Confina anche con l’Unione Europea, sulla quale scarica almeno una parte della marea di profughi (2 milioni) che ne hanno inondato il territorio. I governi e poi la presidenza islamica di Erdogan, rompendo una tradizione pluri-decennale, erano pure entrati in conflitto con Israele, soprattutto per motivi di prestigio all’interno del mondo islamico sunnita. Ma ora che la situazione sta scappando di mano, Ankara e Gerusalemme si stanno riavvicinando gradualmente. Non fosse altro perché Erdogan non ha più alleati regionali su cui contare in modo stabile e ha troppi fronti di lotta da gestire.

Le prospettive sono assolutamente incerte. La crisi della Turchia può prendere una piega imprevista da un momento all’altro. L’unica tendenza che invece continua a essere confermata è la graduale erosione di libertà all’interno della Turchia. Il carattere autoritario di Erdogan, e del partito islamico (Akp) in generale, era evidente sin da subito, ma la condizione di conflitto permanente gli fornisce anche il pretesto per sopprimere le libertà residue. Anche l’attentato avvenuto ieri ha portato subito alla sospensione di media indipendenti e social network. Erano consentiti solo i comunicati ufficiali del governo. Ed è appena l’ultimo di numerosi episodi. Le voci indipendenti sono chiuse temporaneamente in caso di attentato, ma sempre più spesso sono soppresse in modo permanente. E’ ormai “normale” che un canale televisivo vicino all’opposizione venga chiuso in diretta, poco prima delle elezioni. Che dei giornalisti siano processati per “spionaggio” mentre conducono un’inchiesta e altri muoiano in circostanze misteriose. Sta diventando “normale” che 27 professori vengano arrestati, sia pure per un breve periodo di detenzione, per aver firmato una petizione a favore del Kurdistan e che anche semplici studenti finiscano in galera perché esprimono idee pacifiste.

Piano piano, gradualmente, silenziosamente, senza aver bisogno di un nuovo golpe militare, la Turchia sta scivolando verso la dittatura. E verso la forma più totalitaria di dittatura: quella islamica, che reprime al tempo stesso l’anima e il corpo.

ADESSO APPOGGIAMO AL QAEDA? di Gianandrea Gaiani