La tregua non reggerà ma è già un passo avanti
Le diplomazie di Washington e Mosca lo interpretano in due modi diversi. E il presidente siriano Assad dichiara che la guerra continua. Ma l'accordo di Monaco per una tregua è già un passo avanti. Perché gli eserciti impegnati in Siria stanno realizzando che nessuno possa realmente vincere.
Le diplomazie di Washington e Mosca lo interpretano in due modi diversi. Il fronte dei ribelli dal Libano l'ha già definito inaccettabile. E il presidente siriano Assad ieri ha tenuto a far sapere che la «lotta al terrorismo» va avanti e che Damasco intende riprendere il controllo di tutto il Paese «anche a costo di un prezzo pesante». Sono bastate una manciata di ore per confermare quanto labile sia l'accordo raggiunto l'altra notte a Monaco per una tregua che dovrebbe entrare in vigore in Siria nell'arco di una settimana.
Sarebbe molto facile elencare tutte le ragioni per cui nell'immediato è difficile riporre grandi speranze in questo annuncio, giunto nell'ambito dell'International Syria Support Group, il tavolo di 17 Paesi nel quale in teoria siedono insieme tutte le potenze straniere a vario titolo coinvolte nel conflitto: dall'Arabia Saudita all'Iran, dalla Russia agli Stati Uniti, dalla Turchia ai Paesi dell'Unione Europea (noi compresi). Se fosse infatti così facile trovare un'intesa, la guerra sarebbe già finita da un pezzo in Siria. Si tratta di un accordo pieno di ambiguità: intanto in sette giorni l'esercito siriano, gli Hezbollah, le altre milizie sciite - ma anche i curdi, anche loro sostenuti nella regione a nord di Aleppo dai raid aerei russi - possono avanzare ancora parecchio, soprattutto verso il confine con la Turchia. E poi resta l'ambiguità di fondo con Mosca che - tregua o non tregua - si riserva di andare avanti a colpire i «gruppi terroristi», alcuni dei quali coincidono pericolosamente con i «ribelli moderati» sostenuti dall'Occidente fin dall'inizio del conflitto.
È davvero molto difficile - dunque – immaginare che entro venerdì 19 febbraio si materializzi un cessate il fuoco totale, che oltre a permettere l'ingresso di aiuti umanitari nelle zone assediate consenta anche di riprendere i negoziati di Ginevra sul futuro della Siria, interrotti ormai quasi due settimane fa. Ciò non toglie, però, che l'«impegno di carta» - come l'ha definito lo stesso segretario americano John Kerry, suo principale fautore - sia comunque un segnale importante. L'esito del vertice di Monaco dice infatti una cosa molto semplice: l'opzione militare e il tavolo politico, in questa fase della guerra in Siria, sono due percorsi che vanno avanti parallelamente. E il fatto che - nonostante gli esiti apparentemente fallimentari - il canale negoziale venga tenuto comunque aperto, dice che un conto sono le dichiarazioni altisonanti, un altro gli esiti realistici del conflitto.
Perché è vero, con il sostegno dell'aviazione russa l'esercito di Assad (ampiamente rinfoltito da schiere di milizie sciite libanesi, iraniane e anche irachene) ha ormai in pugno Aleppo e - insieme ai curdi - sta chiudendo il corridoio nord che scendeva dalla frontiera turca, fondamentale per l'afflusso di rifornimenti alle milizie ribelli. Ma senza un accordo un'avanzata militare dentro i quartieri ovest di Aleppo - quelli dove sono asserragliati i ribelli - potrebbe avere un costo altissimo per una città dove (nonostante tutto) vivono ancora oltre 300 mila persone. C'è il rischio di una tragedia umanitaria di proporzioni mai viste.
Ma c'è anche un altro punto di domanda fondamentale e riguarda il dopo Aleppo. Ieri il presidente Assad - che si sente oggi quanto mai forte - ha detto in un'intervista all'Afp che l'obiettivo è riprendere il controllo «di tutta la Siria». Su questo, però, non è affatto detto che Mosca sia d'accordo: l'intervento massiccio iniziato in settembre aveva un obiettivo ben preciso e cioè la «stabilizzazione» della cosiddetta «Siria utile», l'asse che va da Damasco ad Aleppo e comprende tutta la fascia costiera, con l'importantissima Latakia, base della flotta russa nel Mediterraneo. Da questo schema rimane fuori l'est della Siria, la zona a maggioranza sunnita controllata oggi dallo Stato islamico, dove non a caso i raid si sono limitati solo all'enclave di Deir Ezzor.
Ed è esattamente a quella regione che bisogna guardare quando si sentono i sauditi dire in queste ore che sono pronti a mandare le proprie truppe di terra in Siria, nell'ambito della coalizione che combatte lo Stato islamico. Riyad non può pensare di andare a difendere l'indifendibile ad Aleppo. E infatti ieri a Bruxelles il segretario alla Difesa americano Ashton Carter è stato molto chiaro, dicendo che i commando dell'Arabia Saudita e degli Emirati Arabi Uniti «possono essere molto utili nella riconquista di Raqqa». Non è su Aleppo, ma su Raqqa che i sauditi oggi puntano per rimanere in gioco nella partita siriana. Togliendo di mezzo il paravento ormai scomodo per tutti dello Stato islamico per entrare in gioco in prima persona. Ed è difficile immaginare che i russi li bombarderebbero davvero a Raqqa.
Assad lo ha capito e ieri nell'intervista ad Afp ha fatto la voce grossa. E lo ha capito anche il governo sciita iracheno che - improvvisamente, dopo averla tenuta in stand-by per un anno - ha ricominciato a dire che l'offensiva su Mosul è urgente. Detto in parole chiare significa «prima che i sauditi si mettano in mezzo» anche lì.
È in pieno movimento, dunque, il conflitto siro-iracheno. Con la Turchia che è il vero ostacolo oggi a ogni accordo, perché vede diventare ogni giorno più solida la realtà dello Stato curdo sulla sua frontiera con la Siria. Opzioni militari e tavoli negoziali si intrecciano come non mai in queste ore. Per questo la fragilissima tregua di Monaco resta comunque un'opzione sulla quale provare almeno a sperare.