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POLEMICHE

La «teologia» di Augias fa acqua da tutte le parti

Pregare per modificare la volontà di Dio? Il giornalista si scandalizza ma non sa che non è questo il senso della preghiera. Che invece consiste...

Attualità 15_04_2012
Corrado Augias

Come spunto per comprendere la natura e lo scopo della preghiera, vale la pena ritornare sulle «lezioni» di teologia date al cardinal Giuseppe Betori da Corrado Augias, su cui è già intervenuto Rino Cammilleri.


Riassumiamo la vicenda: dopo mesi di siccità in Toscana, Betori (arcivescovo di Firenze) ha incoraggiato i cristiani a pregare Dio affinché piovesse. Apriti cielo: così si può esprimere il senso della reazione di Augias su «Repubblica» e di due lettori del quotidiano. Apriti cielo, non nel senso di unirsi anche loro ad invocare la pioggia, bensì come espressione scandalizzata per quanto detto dal cardinale.


Secondo Augias, «Pregare perché dio faccia o non faccia una certa cosa implica che la sua volontà possa essere influenzata, è la stessa logica di chi invoca un miracolo». Inoltre, prosegue Augias, «Ogni dio è, per il suo credente, molto buono e onnipotente. Perché dunque volerne piegare la volontà secondo i nostri interessi?».

Ora, Augias non coglie il fatto che per i cristiani la preghiera non modifica affatto la volontà di Dio. Come dice Tommaso d’Aquino, «noi preghiamo non allo scopo di mutare le disposizioni divine: ma per impetrare quanto Dio ha disposto di compiere mediante la preghiera dei santi; e cioè, come dice S. Gregorio, affinché gli uomini, “pregando meritino di ricevere quanto Dio onnipotente aveva loro disposto di donare fin dall'eternità”» (Summa Theologiae, II-II, q. 83, a. 2).

È (anche) per questo motivo che Dio, pur conoscendo perfettamente tutti i desideri umani, nondimeno vuole che gli uomini glieli esprimano pregando.

Tra l’altro (come è ben evidente nelle Confessioni di Agostino), pregando acquisiamo la consapevolezza (o aumentiamo la comprensione) sia della nostra finitezza e miseria (confessio peccatorum), sia della grandezza di Dio (confessio laudis), diventiamo consapevoli (o maggiormente consapevoli) del nostro bisogno di cercare e amare Dio stesso.


Appoggiandosi a Baruch Spinoza (1632-1677), Augias dice che «invocare da Dio il bene possibile della pioggia significa attribuirgli il male certo della siccità il che per un cardinale è grave».

Che cosa vuol dire «per un cardinale è grave»? Vuol dire che ha deragliato dall’insegnamento di Gesù? Ma, allora, ragionando come Augias, bisognerebbe rimproverare anche lo stesso Gesù di aver deragliato da se stesso: bisognerebbe bacchettare Gesù per aver chiesto al Padre «venga il tuo regno», attribuendo così a Dio il male del non realizzato avvento del suo regno, oppure bacchettarlo per aver chiesto al Padre «dacci oggi il nostro pane quotidiano», attribuendo così a Dio il male della fame o dell’ingiusta remunerazione del lavoro, bisognerebbe rampognare Gesù per aver detto al Padre «liberaci dal male» attribuendo così a Dio il male che schiavizza o aggredisce l’uomo, ecc. Bisognerebbe altresì sgridarlo per aver detto, in occasione della risurrezione di Lazzaro, «Padre, ti ringrazio che mi hai ascoltato», attribuendo così a Dio il male dell’acutissima sofferenza patita dalle sorelle di Lazzaro fino a quel momento ed il male della sofferenza che esse avrebbe continuato a patire se Lazzaro non fosse risorto.


In generale, bisognerebbe bacchettare Gesù per aver insegnato: «Chiedete e vi sarà dato».

Anche Gesù ha deragliato dall’insegnamento di Gesù? O era teologicamente ignorante? In tal caso ci sentiamo di scusarlo, visto che non poteva leggere né i libri di Spinoza né quelli di Augias.


Soprattutto, Augias tralascia la differenza tra volere e tollerare. Quando un medico sottopone un malato di tumore alla chemioterapia, sa con certezza che il malato patirà una serie di pesantissime conseguenze collaterali (vertigini e/o spossatezza e/o vomito, ecc): ma questi effetti non li vuole, bensì li tollera. Ci sono dunque cose che provochiamo consapevolmente, ma che non vogliamo, bensì tolleriamo: queste cose sono conseguenze collaterali delle azioni, cioè conseguenze che la volontà non vuole né come fine né come mezzo, bensì che essa tollera perché vuole qualcos’altro (per esempio perché vuole la guarigione dal tumore nel caso della chemioterapia, o la guarigione da altre malattie nel caso di altri medicinali che hanno effetti collaterali; ho fatto esempi solo nell’ambito medico, ma se ne potrebbero fare molti altri: sulla nozione di effetto collaterale sono costretto a rinviare a G. Samek Lodovici, L’utilità del bene, Vita e Pensiero, Milano 2004, capitolo 6).


Applicando (secondo il metodo dell’analogia) questo discorso a Dio, si può dunque distinguere il volere di Dio dal tollerare di Dio. Così, per esempio, pregare perché Dio faccia piovere non significa per forza pensare che Dio voglia la siccità, bensì che la tolleri in vista di un qualche bene.
Ovviamente questo discorso non è compatibile con la filosofia di Spinoza, secondo cui «poiché l’intelletto divino non si distingue dalla sua volontà, affermiamo la stessa cosa quando diciamo che Dio vuole o diciamo che Dio intende una cosa» (Trattato teologico-politico, Einaudi, Torino 1972, p. 152).

È chiaro: se conoscere equivale a volere, quando Dio conosce una cosa con ciò stesso la vuole, quindi Dio non può provocare una cosa consapevolmente senza con ciò stesso volerla, dunque non può esistere una differenza tra provocare consapevolmente e volere, né tra tollerare e volere. Ma questa equivalenza tra intelletto e volontà divina affermata dal grande Spinoza discende dalle aporetiche (per motivi che qui non si possono spiegare) premesse del suo sistema, dalla sua nozione di sostanza (derivata da Cartesio), dal suo immanentismo panteista, ecc.

Ps: per la cronaca, in Toscana è tornata la pioggia; di più: già Sabato Santo, e poi nella notte di Pasqua, sulle Alpi Apuane è scesa di nuovo persino la neve.