La spiritualizzazione del cristianesimo, una tendenza errata
C’è una tendenza a spiritualizzare il cristianesimo per la quale si rigetta la dimensione materiale, rituale, fisica quale residuo di una religiosità imperfetta. Ma questa è un’ideologia che comporta una comprensione errata del principio sacramentale e, in definitiva, dell’Incarnazione.

Non c’è secolo in cui almeno un teologo, un filosofo, e persino uno di quella strana specie di “tuttologi” che popolano gli studi televisivi, non si avventuri in un saggio o in una conferenza sul tema dell’essenza del cristianesimo. Non sono pochi i libri che esibiscono questo tema già nel titolo.
La tendenza prevalente di questo tipo di trattazione va nella direzione di una spiritualizzazione del cristianesimo. Il nucleo puro e perenne della religione cristiana si ritroverebbe nello “spirituale”, con connotazione talvolta più morali e talaltra più misticheggianti, mentre ciò che comporta una dimensione materiale, rituale, fisica non è che il residuo impuro di una religiosità imperfetta. Questo modo di pensare, sebbene possa apparire molto seducente, ha il non piccolo difetto di essere del tutto ideologico e di non ritrovare riscontro in nessuna forma storica della vita della Chiesa, nemmeno nella chimerica “Chiesa antica”, alla quale si attribuisce tutto e il contrario di tutto.
Uno dei problemi di questa tendenza ideologica sta nel fatto di aver contaminato la comprensione delle fonti antiche del cristianesimo, in particolare della vita cultuale. In pratica, le fonti antiche sono state intese come testimonianze di un cristianesimo puro, avulso dalla materialità. E così, il culto dei primi secoli poteva essere solo “spirituale”, interiore, senza alcuna attenzione, quando non persino in aperta opposizione, agli oggetti, ai gesti, ai luoghi del culto; quasi che il cristianesimo sia una chiamata alla “spiritualizzazione” e dunque alla progressiva e inesorabile eliminazione delle sovrastrutture rituali. Il cristianesimo si sarebbe pertanto contrapposto frontalmente alle religioni pagane e anche al giudaismo, rifiutando gli elementi strutturali della religione: la distinzione tra sacro e profano, l’idea di sacrificio mediato da realtà materiali, la necessità di mediatori sacrificali (sacerdoti), l’orientamento cultuale, nella distinzione tra alto e basso, oriente e occidente, e così via.
Questo però è un errore piuttosto grave, che è stato reso possibile solo a causa di un accecamento ideologico; e pericoloso, perché mina alla radice le strutture fondamentali del fenomeno religioso e dell’espressione della religiosità umana, finendo per isolare il cristianesimo e renderlo sordo all’homo religiosus.
La verità è che il cristianesimo, fin dai suoi primi passi, si comprende come il compimento e la purificazione di ciò che era strutturalmente presente nelle religioni antiche. Compimento e purificazione: mai l’uno senza l’altro. Basta porre mente al fatto che il Signore Gesù, nella notte in cui veniva tradito, non abolì la liturgia, il sacrificio, il sacerdozio, ma istituì il culto della nuova ed eterna Alleanza, servendosi di parole, realtà materiali, gesti e creando così una nuova liturgia, un nuovo sacrificio, un nuovo sacerdozio. Quella notte era nato un nuovo ordine di cose, che portava a compimento i riti giudaici, ma anche il senso più vero e profondo dei riti pagani (ossia nella misura in cui essi hanno saputo esprimere la religiosità naturale dell’uomo), eliminando tutto quello che in essi poteva trovarsi di imperfetto e persino di nocivo, senza però eliminare la materialità del rito in quanto tale. Il Dio creatore della materia non eliminava l’opera delle sue mani, ma la assumeva per elevarla a significare, mediare e comunicare le realtà celesti.
Tra il cristianesimo e il giudaismo da una parte e le religioni pagane dall’altra si instaurava un rapporto di continuità e di discontinuità. L’Eucaristia non era l’abolizione del culto, ma si affermava come il vero culto. Non un’opposizione, dunque, tra una religione cultuale e una a-cultuale, ma semmai una tensione tra culto vero e perfetto e culto imperfetto e non di rado deviato in alcune sue manifestazioni.
L’impostazione ideologica “spiritualista” ha portato a leggere in senso anti-cultuale i numerosi testi in cui i Padri della Chiesa parlano del sacrificio spirituale (θυσία λογική, thusìa loghiké), contrapponendosi ai sacrifici dei pagani. Questi testi, presenti soprattutto nei Padri apologisti, sono stati interpretati come se il culto cristiano si contrapponesse all’offerta sacrificale di realtà materiali o alla presenza di un vero altare. La realtà è però ben diversa. I Padri prendevano le distanze dai sacrifici cruenti di animali e dai rispettivi altari, sui quali le vittime venivano sgozzate e bruciate, ma non dal sacrificio e dall’altare in sé. Al contrario, queste realtà materiali, che Cristo aveva confermato, erano la reificazione, l’esteriorizzazione del sacrificio interiore. Nel cristianesimo, interno ed esterno, spirito e materia si ritrovano unificate e ordinate; questo è alla base del principio sacramentale, capace di ritrovare in ciò che è storico e materiale il significato sovratemporale e spirituale, senza tuttavia sacrificare il “rivestimento” materiale di questo significato. In questo senso, lo spirituale cristiano è tutt’altro che nemico della ritualità. Il Signore Gesù Cristo, nella sua realtà teandrica, è il sacramento archetipico e fondativo di tutta la sacramentalità del reale in generale e della liturgia in particolare: la sua umanità non viene eliminata per dare spazio alla divinità, ma è al contrario lo strumento che la rivela e la comunica.
La lettura deritualizzante di quei testi dei Padri che sottolineano il significato spirituale dell’altare e del sacrificio, o l’importanza di dare culto a Dio con una condotta morale irreprensibile, non nasce dalla comprensione del culto e del sacrificio da parte della Chiesa antica, ma piuttosto da una comprensione errata del principio sacramentale e, in ultima analisi, dell’Incarnazione. Una deviazione pericolosa, che costituisce l’anima dell’attuale rampante secolarismo, il quale altro non è che l’esito inevitabile della rimozione dell’incarnazione dello spirituale nella realtà materiale e storica.
Per Giustino, Atenagora od Origene non si tratta affatto di affermare il significato spirituale “sacrificando” quello materiale, ma di saper cogliere il senso spirituale del materiale, nel materiale, nella consapevolezza che il reale colto dai nostri sensi è portatore di un significato che lo trascende. I Padri marcano la distinzione tra il cristianesimo e le religioni pagane – e, in modo differente, tra il cristianesimo e il giudaismo –, spesso rigettando con vigore i loro altari, i loro templi, i loro sacrifici, perché riconoscono in essi la corruzione della vera religione; ad essi oppongono l’altare del cuore, il tempio dell’anima e il sacrificio interiore, nella lotta ai vizi e al male. Ma mai essi criticano o mettono in dubbio l’esistenza dell’altare dei cristiani, dei loro luoghi sacri, del sacrificio incruento del Corpo e del Sangue del Signore. Questa interpretazione dei loro scritti è fuorviante e anacronistica.
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