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MEDIORIENTE

La Siria dimostra che nulla ferma i Fratelli Musulmani

L'espulsione di Damasco dalla Lega Araba segna l trionfo dei "moderati". Che però da queste parti sono pur sempre i Fratelli Musulmani.

Attualità 17_11_2011
L'alleanza storica tra Siria e Iran

 

Il regime siriano gioca le ultime carte per evitare l’isolamento ma gli equilibri internazionali e soprattutto quelli interni della Lega Araba sembrano ormai indicare la volontà di rovesciare Bashar Assad.

Dopo la sospensione di Damasco dall’organismo panarabo il governo siriano ha liberato 1.180 detenuti coinvolti nelle contestazioni «che non hanno commesso omicidi» come ha scritto l’agenzia di stampa di stato Sana. Un gesto che si aggiunge alla liberazione di altri 553 prigionieri rilasciati il 5 novembre in occasione della festa islamica di Eid al-Adha. Tra di essi anche il leader di uno dei partiti siriani dell'opposizione, Kamal Labouani, dopo sei anni di carcere. Labouani era stato arrestato nel novembre del 2005 a Damasco appena sceso dall'aereo, al ritorno da un viaggio in Europa e negli Stati Uniti, durante il quale aveva apertamente criticato il regime siriano. Si tratta di una figura simbolica in Siria perché era stato già incarcerato dopo la cosiddetta "primavera di Damasco", nel 2001, per la quale aveva scontato tre anni di reclusione. La liberazione di  Labouani, esponente liberale e laico, sembra avere l’obiettivo di dividere il fronte dell’opposizione che nella rivolta in atto è guidato dai cosiddetti "islamici moderati" legati al movimento dei Fratelli Musulmani che costituiscono l’asse portante del Consiglio nazionale siriano (CNS) istituito dall’opposizione in Turchia nell’agosto scorso.

Intorno a questa opposizione di stampo religioso sembra ormai essersi catalizzato il sostegno del mondo arabo e della Turchia che, con il via libera di Washington (Obama cavalca l’onda della primavera araba in salsa islamica), sta accentuando le pressioni per isolare Bashar Assad e accelerarne la caduta del regime per favorire un’evoluzione politica simile a quella di Tunisia ed Egitto. Non è un caso che proprio l’Egitto, che da sempre esercita un ruolo di leadership nella Lega Araba, non muova un dito per lasciare aperti spiragli con Damasco mentre le monarchie sunnite del Golfo (sponsor della rivolta contro Muammar Gheddafi in Libia) hanno respinto la richiesta siriana di convocare d’urgenza un vertice straordinario della Lega Araba.  

Arabia Saudita, Emirati, Kuwait, Qatar, Oman e Bahrain contestano al regime siriano di non aver attuato  il piano di pace arabo per porre fine a otto mesi di violenze in Siria, che sono costate la vita ad almeno 3.500 persone. Il summit chiesto da Damasco potrà essere convocato solo se 15 dei 22 Paesi della Lega Araba accetteranno la proposta. Un’ipotesi improbabile che conferma un isolamento simile a quello che la stessa Lega Araba applicò al regime libico, non a caso sostenuto fino all’ultimo proprio da Damasco. Il segretario generale dell'organizzazione con base al Cairo, Amer Moussa, in una conversazione che l'editorialista del quotidiano panarabo di Londra Al Hayat, Dawood Al Shryan ha utilizzato gli stessi termini che portarono nel marzo scorso all’intervento militare contro Tripoli. «Considero la nostra decisione di allontanare Damasco dall'organizzazione in linea con la costituzione della Lega che ha in cima dei suoi obiettivi la difesa dei cittadini arabi. È assurdo  ricercare l'unanimità mentre vengono massacrati cittadini arabi». Nel caso libico la protezione della popolazione contro il regime è divenuta persino la "nota di linguaggio" utilizzata dalla Nato per definire l’operazione "Unified Protector" contro le truppe lealiste e anche se contro la Siria non sembra prepararsi un’operazione militare è evidente che tutta la comunità internazionale con l’eccezione di Russia e Cina stanno stringendo il cerchio contro il regime di Assad. Sul piano pratico lo fa soprattutto la Turchia che ospita sul suo territorio migliaia di profughi, i membri  del CNS (nato sulla falsa riga di CNT libico) e i militari disertori confluiti nell’Esercito libero siriano (ELS) del colonnello Riyad al-Assad responsabile di attacchi e attentati contro le forze fedeli al regime (l’ultimo martedì contro una base dell’intelligence vicino a Damasco) che hanno già ucciso decine di soldati e poliziotti.

Il premier turco Recep Tayyip Erdogan, ha dichiarato che «non ci aspettiamo più che il governo Assad si dimostri onesto, convincente e coraggioso né che risponda alle richieste della comunità internazionale» e domenica il ministro degli Esteri, Ahmet Davutoglu, ha detto che il regime siriano «pagherà cara la repressione delle opposizioni». Ankara sembra poi pronta a passare alle vie di fatto non tanto sul piano militare quanto su quello economico minacciando di interrompere le forniture di elettricità, vitali per la Siria, come ha affermato il ministro dell'Energia, Taner Yildiz ottenendo il plauso di Washington. La compagnia energetica statale turca, Tpao, ha sospeso intanto le attività di esplorazione congiunta con la Siria nel settore del gas. Una misura che penalizza Damasco già alle prese con un forte calo della produzione di greggio passata da 380.000 a 280.000 barili al giorno a causa delle recenti sanzioni internazionali. Benché la produzione siriana di petrolio sia marginale per i mercati internazionali, la sua commercializzazione costituisce il 28 per cento delle entrate nazionali. Finora il 95 per cento dell’export era rivolto all’Europa il governo siriano sta cercando di compensare le sanzioni vendendo greggio a India e altri Paesi asiatici.

L’atteggiamento di Ankara è percepito a Damasco come un tradimento anche perché fino a pochi mesi or sono Turchia e Siria erano legate da accordi di stretta cooperazione economica e militare mentre Erdogan considerava Assad un amico personale nonostante il suo regime avesse già represso più volte nel sangue rivolte e contestazioni. A ben vedere lo stesso schema applicato alla Libia di Gheddafi il cui regime è stato distrutto da Paesi che fino al gennaio scorso riservavano tutti gli onori  al Colonnello pur di fare affari con lui. A conferma che lo schieramento internazionale catalizzatosi contro Damasco è sempre più ampio, martedì in Kuwait la maggioranza dei membri del Parlamento, 33 su 50, ha chiesto il riconoscimento del Consiglio Nazionale Siriano mentre ad Amman re Abdallah di Giordania ha detto chiaramente che Assad dovrebbe dimettersi.

Elementi che contribuiscono a rafforzare l’accerchiamento arabo al regime di Damasco il cui crollo indebolirebbe anche l’Iran che attraverso l’alleato siriano appoggia e rifornisce militarmente Hezbollah in Libano. I destini del regime siriano sembrano legati strettamente al braccio di ferro in atto con Teheran per il suo programma nucleare che preoccupa non solo Israele ma soprattutto le monarchie sunnite del Golfo. L’indebolimento dell’Iran è un obiettivo perseguito anche da Washington  che sostiene le posizioni arabe e turche a vantaggio di un’opposizione siriana che ha chiesto l’invio di caschi blu dell’Onu (ma non vuole un intervento militare internazionale) e che per negoziare col regime chiede le dimissioni preventive del presidente Bashar Assad, cioè il dissolvimento del regime stesso.

Non sorprende che in questo contesto Damasco abbia ordinato ai suoi reparti del Genio di minare i confini con Turchia e Giordania (quelli con Israele ai piedi delle alture del Golan sono minati dal 1967) ufficialmente per prevenire l’infiltrazione di miliziani dell’opposizione ma probabilmente anche per proteggersi da aggressioni esterne.