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MALI SCONOSCIUTI

La schiavitù nel XXI Secolo è tutt'altro che estinta

Dopo l'appello del Papa contro i nuovi schiavi, indaghiamo su un fenomeno che siamo soliti considerare estinto da un secolo e mezzo. E che invece è ancora vivo e vegeto. Nel mondo ci sono ancora 36 milioni di persone ridotte in schiavitù. Oltre ai casi eclatanti del Califfato e della Nigeria...

Esteri 03_01_2015
India

La schiavitù non è un ricordo sepolto nel passato, esiste ancora. Il richiamo di Papa Francesco alla nuova schiavitù, l'ultimo giorno dell'anno scorso, dovrebbe suonarci come una sveglia. Gli schiavi, ad oggi, sono 36 milioni, secondo il Global Slavery Index del 2013, redatto dalla Walk Free Foundation, una Ong con sede in Australia. Se mettessimo tutti e 36 milioni di schiavi assieme, essi formerebbero una nazione intera, popolata quasi quanto la Polonia, o, per usare un esempio più noto, più della metà della popolazione italiana. Eppure il problema è quasi del tutto assente nell’agenda delle emergenze umanitarie.

Il nostro è un problema di percezione. Prima di tutto perché viviamo in un’area del mondo quasi del tutto priva di schiavitù almeno da un secolo e mezzo. Dunque abbiamo la tendenza a considerare il problema come una metafora di altri fenomeni. Ogni giorno sentiamo dirci che siamo “schiavi dei social network”, o “schiavi di bisogni creati dalle multinazionali”, o addirittura “schiavi del benessere”. Invece ci sono anche schiavi, nel senso pieno e comune del termine, in catene, catturati, comprati, venduti, costretti a lavorare sotto la minaccia di morte.

Il Califfato islamico è l’esempio più noto del 2014. Donne irachene, soprattutto quelle appartenenti alla minoranza yezida, una volta catturate dai guerriglieri dell’Isis vengono vendute al mercato di Mosul per un prezzo esiguo, l’equivalente di cinque dollari l’una. I racconti delle sopravvissute, raccolti dal rapporto di Amnesty International Fuga dall’Inferno sono più che eloquenti: sono usate come oggetti sessuali, violentate, concesse come “mogli” ai guerriglieri, oppure passate di mano in mano fra tanti guerriglieri, date in “premio” ai volontari jihadisti venuti dall’estero, cedute ai capi-tribù locali in cambio di armi e alleanze. Sono costrette a convertirsi all’islam e spesso, anche per punire la loro precedente adesione ad altre religioni, subiscono la mutilazione genitale femminile. Non esiste ancora una statistica aggiornata sulle donne rapite, catturate, vendute dal nuovo Califfato. Sono nell’ordine delle migliaia, solo 300 sono finora riuscite a fuggire dai loro padroni e carnefici, secondo il rapporto di Amnesty. Sconosciuto, ma sicuramente superiore al migliaio, è il numero delle ragazze uccise o di quelle che si sono tolte la vita, pur di non subire altri abusi. Il Califfato non nasconde affatto questo scempio. La sua rivista ufficiale, Dabiq, legittima la schiavitù, sulla base dell’interpretazione letterale di alcuni versetti del Corano. Come mostra anche il servizio del giornalista tedesco Jürgen Todenhöfer, il primo ad aver portato in Occidente dei video girati a Mosul sotto il Califfato, nei negozi locali sono spariti i libri e sono comparsi fascicoli sulla jihad e la conduzione di ogni aspetto della vita in un governo islamico. Fra cui anche dettagliati manuali su come trattare le schiave.

Un altro caso molto celebre di schiavitù moderna è in Nigeria: le oltre 200 studentesse cristiane rapite da Boko Haram (affiliato al Califfato). Secondo Abubakar Shekau, il leader del gruppo terrorista intento a creare il proprio Stato nel Nord del Paese africano, le studentesse sono già state vendute come “mogli” o in procinto di esserlo. Anche loro sono state costrette a convertirsi all’islam e, colpevoli di aver studiato, quando erano “infedeli”, ora saranno obbligate a una vita di reclusione, cedute a guerriglieri di Boko Haram e loro alleati, anche all’estero.

Questi che abbiamo visto qui sopra sono casi eclatanti, mediatici, ma relativamente limitati. Ci sono, tuttavia, Paesi interi in cui la schiavitù è sistematica e permanente. Secondo il Global Slavery Index, in testa continua ad esserci la Mauritania, in cui il 4% della popolazione è ridotta in schiavitù. Si tratta di una “tradizione” e gli schiavi vengono tramandati di generazione in generazione alle famiglie di proprietari. Il governo non la considera una pratica legale, nel 2013 il presidente ha creato un’Agenzia Nazionale per la Lotta ai Residui di Schiavitù. Ma l’azione governativa per combattere lo schiavismo è ancora molto limitata. Stupisce, fino a un certo punto, che al secondo posto di questa classifica dell’infamia, compaia una repubblica asiatica dell’ex Unione Sovietica: l’Uzbekistan. Anche qui, quasi il 4% dell’intera popolazione, cioè 1 milione e 200mila persone, è ridotto in schiavitù, con l’esplicito avallo del governo, per coltivare i campi di cotone. Il ricordo della “capanna dello zio Tom” e dei campi sudisti (degli Usa) si è insomma trasferito in Asia, nell’ex “paradiso dei lavoratori” sovietico, anche se gran parte dell’opinione pubblica occidentale non se n’è ancora accorta.

In America spicca soprattutto il caso di Haiti, dove il 2,3% della popolazione, cioè 238mila persone, è costituita da schiavi. In questo caso si tratta della riduzione in cattività dei bambini delle famiglie più povere, mandati a lavorare presso altre famiglie che spesso se ne impossessano, ne abusano e li costringono a corvée forzate. Segue il Qatar, dove è in catene l’equivalente dell’1% della popolazione (circa 30mila persone), immigrati da Paesi asiatici quali India, Sri Lanka, Nepal, Pakistan, Bangladesh, costretti a lavorare nei cantieri in condizioni disumane, senza paga e senza la possibilità di lasciare il Paese o il posto di lavoro, per costruire splendidi palazzi destinati ai locali miliardari. I loro Paesi di provenienza sono, a loro volta, protagonisti della moderna schiavitù. Abbiamo già avuto modo di vedere, su queste colonne, il caso del Pakistan che conta circa 2 milioni di schiavi, poco più dell’1% della popolazione totale. L’India è ancora peggiore, con 14 milioni di schiavi, quasi la metà dell’intera popolazione in catene di tutto il mondo, pari all’1,2% della sua immensa popolazione. In India lavorano in condizioni di schiavitù soprattutto gli emigranti interni, i membri delle caste inferiori e le donne, in fabbriche di mattoni, tessili, nel mercato della prostituzione forzata, nelle miniere e nell’accattonaggio coatto.

L’Europa e il Nord America appaiono molto in fondo a questa classifica. Con due eccezioni, la Moldavia, al 15mo posto, e la Russia al 32mo. La prima è un punto di snodo per la tratta delle prostitute, la Russia è invece sia terra di sfruttamento della prostituzione e del lavoro schiavista (di immigrati dall’Asia Centrale, soprattutto), sia un punto di snodo per la tratta degli schiavi provenienti dall’Asia: circa 1 milione di persone coinvolte, pari allo 0,7% dell’intera popolazione russa. Per il resto occorre scorrere la classifica fino al 73mo posto per trovare il primo Paese membro dell’Unione Europea: la Bulgaria. L’Italia è al 146mo, su 167 Paesi scrutinati.

Stupisce leggere che la Cina sia al 109° posto. Della Repubblica Popolare si riportano i circa 3 milioni di “nuovi schiavi”, soprattutto emigranti interni sfruttati nelle città delle regioni più ricche. Sono tanti, in termini assoluti, ma pochi sul miliardo e mezzo di cinesi. Ma potrebbero essere molti di più, almeno tre volte tanto. Infatti, formalmente, il regime di Pechino ha abolito il sistema dei Laogai, di rieducazione tramite lavoro forzato. Ma è impossibile monitorare quanto questa riforma sia stata implementata realmente. Secondo le stime della Laogai Research Foundation, nel 2008 circa 6 milioni e 800milioni cittadini cinesi erano rinchiusi in un migliaio di campi, costretti a lavorare per 13 ore al giorno e a subire sessioni di “rieducazione politica”. Quanti di loro ora sono liberi? E’ difficile fare un calcolo preciso, perché dal 1990 il regime cinese ha abolito il termine “Laogai” sostituendolo con il più generico “carcere”. Sempre negli anni ’90, inoltre, i lavoratori forzati sono stati anche destinati alla produzione industriale e non è noto il numero di fabbriche, apparentemente civile, che in realtà sono parte del sistema concentrazionario.

Non devono trarre in inganno neppure i dati sulla Corea del Nord, classificata al 63mo posto, dunque abbastanza ben piazzata. Dalla Corea del Nord non escono dati ufficiali e nessuno può entrare a verificarli. L’Onu ha concluso la scorsa primavera il suo primo rapporto sui campi di lavoro nordcoreani, concludendo che si tratti di una delle più massicce violazioni di diritti umani al mondo. Gli internati sono dagli 80 ai 120mila prigionieri politici o di coscienza (l’Index fornisce una stima intermedia di 108mila), costretti a lavorare in condizioni molto spesso mortali, subendo percosse, abusi, torture fisiche e psicologiche, spesso condannati a morte anche per la minima infrazione.