L'EDITORIALE
La salvezza non viene dalla legge
Sulla questione del fine vita, il rischio mortale è che la Chiesa affidi la salvezza a una legge, che non abbia più coscienza che solo una nuova evangelizzazione può ricreare quella cultura della vita che renderebbe inaccettabili anche i tentativi “creativi” di alcuni giudici.
Editoriali
04_05_2011
“Lo Stato riconosce il diritto alla vita del concepito e, dato che gode di eguale diritto alla vita della madre, ne garantisce la tutela e con le sue leggi difende quel diritto”. E’ quanto si legge all’articolo 40 della Costituzione irlandese, una tutela del diritto alla vita del concepito molto esplicita e chiara, che non lascia margine a equivoci. Non dimentichiamo poi, se qualcuno avesse ancora qualche dubbio, che la stessa Costituzione si apre “Nel nome della Santissima Trinità, da Cui viene tutta l’autorità e a Cui tutte le azioni di persone e Stati devono essere finalizzate”.
Una legge che, qualcuno direbbe, più giusta non si può. Un cattolico non potrebbe certo desiderare di meglio.
Eppure, dalla metà degli anni ’90, quello che appare come un articolo costituzionale indiscutibile non lo è più perché i giudici della Corte Suprema, dopo diversi assalti dei gruppi abortisti, hanno “reinterpretato” l’articolo e sentenziato che l’aborto è possibile in caso di rischio per la vita della donna, mentre le donne vittime di violenza hanno almeno il diritto di attraversare un fazzoletto di mare per andare ad abortire in Gran Bretagna. Un referendum inoltre ha reso legale per tutte le donne andare ad abortire all’estero nonché il diritto ad avere tutte le informazioni su come farlo.
Che cosa vuol dire questo? Semplicemente che sebbene avere leggi giuste sia importante, il loro significato è sempre relativo.
La legge, cioè, è espressione di una cultura condivisa da una determinata società in un dato momento. E sebbene la legge abbia anche una funzione pedagogica, se la cultura di una società cambia, fatalmente cambierà prima l’interpretazione della legge, poi la legge stessa. E’ la storia che ce lo dice. In Irlanda, la “cultura della morte” – soprattutto nella capitale – ha cominciato a prendere gradualmente il posto della tradizionale “cultura della vita” e questo ha fatto sì che anche una norma chiara e inequivocabile fosse reinterpretata in senso sfavorevole alla vita.
Questo dovrebbe insegnare che, se si vuole davvero leggi giuste, che difendano la vita, bisogna anzitutto far sì che sia attuale e condivisa una cultura della vita.
Venendo all’Italia, e al caso della proposta di legge sul fine vita, pensare che l’eutanasia possa essere fermata da una legge, peraltro con diversi punti controversi, soggetti a diverse interpretazioni, è una enorme sciocchezza.
Le leggi buone sono necessarie, ed è importante che i laici in politica si impegnino a fondo per questo, ma delegare a un processo legislativo la tenuta culturale di una società è un errore madornale. Peggio ancora quando una legge viene “imposta” quasi fosse un “dogma di fede”, e si tacci addirittura di “immoralità” chi porta delle ragioni contrarie.
Il rischio più grave, in questo caso, non è che entri l’eutanasia nel nostro ordinamento: dal punto di vista dei pro-vita, abbiamo detto più volte che ci sono ragioni sia a sostegno sia contro questa proposta di legge. Il rischio mortale è invece che la Chiesa affidi la salvezza a una legge, che non abbia più coscienza che solo una nuova evangelizzazione può ricreare quella cultura della vita che renderebbe inaccettabili anche i tentativi “creativi” di alcuni giudici.
Non è un modo di dire: se in Italia e in Europa abbiamo ereditato delle legislazioni in favore della vita e della dignità della persona è solo grazie alla cultura cristiana – e direi più specificatamente, cattolica – che ha letteralmente formato i nostri popoli. Poi le leggi hanno cominciato a cambiare di pari passo con la secolarizzazione e l’avanzare di una cultura laicista, contraria alla vita. E fuori dal mondo cristiano – potremmo citare infiniti esempi – non esiste un diritto alla vita assoluto, né la dignità della persona è considerata inviolabile, neanche come principio astratto. Non a caso: perché soltanto il cristianesimo ha rivelato all’uomo – e reso esperienza - la sua stessa dignità, data dall’essere “a immagine e somiglianza di Dio”.
Che questa dignità venga riscoperta e rispettata non dipende dalle leggi, per buone che siano, ma dalla possibilità che quella esperienza sia presenza oggi, che l’avvenimento di Cristo sia contemporaneo, riaccada oggi: per me, per te, per le persone che abbiamo vicino. Ai pastori che guidano la Chiesa chiediamo soprattutto l’attenzione a far sì che le comunità cristiane siano vive e testimonino la contemporaneità di Cristo.
Questo non per svalutare l’impegno politico e legislativo; al contrario, è per dargli la giusta prospettiva senza la quale l’uomo diventa “per la legge”, e non la legge “per l’uomo”.