La regalità di Cristo, un dilemma da risolvere
Dobbiamo guardare in faccia la realtà: oggi ricorre la festa di Cristo Re, ma sulla “Regalità di Cristo” ci si divide. Esistono infatti due interpretazioni teologiche diverse tra loro che si contraddicono sul punto fondamentale della regalità “politica” di Cristo: se essa esista o no. Per evitare spinosi problemi, la strada che viene seguita è di stemperare i toni della “regalità” e di affievolire le sue pretese. All’espressione si assegna un significato spirituale, oppure escatologico, oppure vagamente pastorale, ma non sociale e politico.
Dobbiamo guardare in faccia la realtà: oggi ricorre la Solennità di Cristo Re, ma sulla “Regalità di Cristo” ci si divide. Esistono infatti due interpretazioni teologiche diverse tra loro che si contraddicono sul punto fondamentale della regalità “politica” di Cristo: se essa esista o no. Ovviamente adopero l’aggettivo politica non nel senso dei partiti politici, ma per chiedere se la politica, come organizzazione della vita comunitaria in vista del bene comune, abbia un dovere verso Cristo, la religione cattolica, la Chiesa. La Dignitatis humanae del Vaticano II parla di un dovere “delle persone e delle società nei confronti dell’unica vera religione di Cristo”, ma non parla di un dovere della comunità politica. Per una certa teologia tale dovere non esiste, per un’altra teologia esiste e su questo dissidio ancora non c’è pace.
La parola dovere va intesa in senso forte. Dire che esiste un dovere della politica verso la religione vera, significa sostenere che non per motivi contingenti, occasionali o accidentali, ma per motivi essenziali, la politica non può stare senza la religione di Cristo, pur senza identificarsi con essa. Come dire che la politica non riesce ad essere vera politica se si separa dalla religione di Cristo. Per fare l’esempio dell’Italia: la politica italiana dovrebbe avere un rapporto essenziale con il cristianesimo non perché la nostra storia e la nostra cultura sarebbero irriconoscibili senza il cristianesimo, come spesso si dente dire, ma per l’apporto veritativo fondante che la fede cristiana dà alla politica stessa. Per continuare con gli esempi: nelle scuole si dovrebbe insegnare la religione cattolica non come generica istruzione religiosa di tipo culturale o per apprezzare il contributo del cristianesimo alla nostra cultura, ma per la sua verità e indispensabilità per la vita comunitaria, come se senza quella la comunità politica non potesse stare in piedi.
Si capisce bene perché su questo tema c’è dissidio e perché la lotta teologica sia su ciò ancora molto aspra. Se si intende la “Regalità sociale di Cristo” nel senso di questo dovere della politica verso la religione vera, la comunità politica dovrebbe avere con il cristianesimo un rapporto preferenziale ed unico, che andrebbe contro il principio della libertà religiosa come lo si intende oggi. La vita politica non sarebbe più laica nel senso che si attribuisce oggi a questo termine. Il bene comune non sarebbe più deciso da una maggioranza democratica, ma corrisponderebbe ai fini naturali delle persone, delle società naturali e dei corpi intermedi conosciuti dalla ragione ma ultimamente garantiti dalla religione. Il matrimonio religioso sarebbe l’unica forma di matrimonio pubblicamente riconosciuto. L’educazione sarebbe prima di tutto un dovere della Chiesa e non dello Stato. E così via. Insomma, ammettere questo dovere della politica verso la religione vera comporterebbe rivedere alla radice alcuni principi fondamentali della politica come la si intende oggi.
La regalità di Cristo e questo dovere della politica sono stati sempre affermati dai Pontefici da Pio IX a Pio XII. Il Vaticano II ha introdotto nuove prospettive, ma sia nei testi conciliari che nel magistero postconciliare, nessun Pontefice ha formalmente negato il principio. Se ne è parlato di meno e in modo meno deciso, ma non lo si è mai negato. Così che tra i nuovi principi, come quello della libertà religiosa, e l’antico mai negato principio della regalità politica di Cristo si è creato un corto circuito che aspetta ancora di essere aggiustato. Non si capisce infatti come sia possibile annunciare Cristo nella politica, nell’economia e nella società – cosa sempre richiesta dai papi postconciliari – senza annunciare anche la sua Regalità, privarlo di un vero Potere, negarne la funzione di Legislatore e di Fondamento dell’autorità… il che equivarrebbe a negarne la divinità. Non si capisce come si possa “ordinare a Dio le cose temporali”, come devono fare i laici secondo il Concilio, e nello stesso tempo, come ammette il numero 423 del Compendio della Dottrina sociale della Chiesa, evitare di generare "una discriminazione d’ordine civile o sociale per altri gruppi religiosi”. Ammettere la regalità di Cristo non è compatibile col creare una società multireligiosa o atea.
Per evitare questi spinosi problemi, la strada che viene seguita è di stemperare i toni della “regalità” e di affievolire le sue pretese. All’espressione si assegna un significato spirituale, oppure escatologico, oppure vagamente pastorale, ma non sociale e politico. Eppure non si sfugge al problema: se Benedetto XVI scrive che il cristianesimo non è solo utile, ma indispensabile alla soluzione della questione sociale, non ripete quanto diceva Leone XIII secondo cui non c’è soluzione alla questione sociale fuori del Vangelo? Dicono ambedue la stessa cosa, quindi rimandano ambedue ad un dovere della politica verso la vera religione. Però allora si tiravano delle conseguenze che ora non si tirano più, almeno non si tirano più fino in fondo.
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Appendice. Luoghi del Nuovo Testamento che parlano della Regalità sociale e politica di Cristo:
Ap, 1, 5-8; Ap, 19,16; Gv, 15,10; Gv, 5, 22; Gv, 18,33-37; Gv, 19,11; Lc, 1, 32-33; Mt, 25, 31-40; Mt, 28-18; Eb. 1,2; Rm, 12, 1, 4; 1Cor, 15,25; At, 4,16.