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La questione meridionale è un problema culturale

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Attualità 16_05_2011
questione sud

Perché l'Italia cresce meno degli altri paesi europei? Una risposta particolarmente autorevole è venuta nei giorni scorsi dal ministro dell'Economia. Parlando ai giovani riuniti a Bagnaia, nei pressi di Siena, in un convegno nell'ambito dell'iniziativa "Il quotidiano in classe", Giulio Tremonti ha posto l'accento essenzialmente su due elementi. Il primo: lo sviluppo non può più venire dalla spesa pubblica. Il secondo: quello che frena l'Italia è soprattutto il Mezzogiorno perchè il Nord è una delle aree più ricche e più dinamiche d'Europa mentre il Sud va addirittura indietro e quindi il primo responsabile dei tassi di crescita minuscoli della media dell'intero Paese.

L'analisi di Tremonti non è sicuramente nuova, perchè la questione meridionale è antica quanto e più dell'unità d'Italia, ma ha il pregio di mettere a fuoco soprattutto i tre elementi che attualmente rendono la soluzione ancora più difficile che nel passato.


Il primo elemento è l'inefficienza della politica: le classi dirigenti meridionali si sono dimostrate incapaci di spendere i fondi europei stanziati per gli investimenti con percentuali di utilizzo di questi fondi che raramente hanno superato il 10%.


Il secondo elemento è la carenza di infrastrutture. "Andate alla Stazione Termini a Roma - ha detto Tremonti - e guardate i treni: quelli che vengono da Nord hanno il frontale pieno di moscerini, quelli che vengono dal Sud sono quasi puliti. I primi sono ad alta velocità, i secondi hanno tempi biblici per unire Reggio Calabria alla capitale".

Il terzo elemento è l'incapacità di sfruttare le nuove opportunità perché il modello economico resta basato sull'impiego pubblico, sul piccolo commercio, sul turismo delle piccole strutture familiari.

Come affrontare questa realtà? Si potrebbe sottolineare il fatto che già il mettere a fuoco i problemi è fare un passo avanti per la loro soluzione. Ma se non dimentichiamo una delle premesse ("Non si può più fare sviluppo con la spesa pubblica") allora si può affermare che la soluzione non può che essere drasticamente diversa dalle strade tentate nel passato. E' fallita la strategia dei grandi complessi industriali, non a caso ribattezzati "cattedrali nel deserto". Così come ha provocato solo limitati effetti positivi la strada delle agevolazioni e degli incentivi per le imprese perché se è vero che alcune attività industriali sono nate e si sono consolidate, altre hanno pagato il fatto di avere fin dall'inizio dei parametri economici che non rispettavano gli equilibri del mercato.

Le prospettive appaiono peraltro ancora più grigie, ma questo il ministro non lo ha detto, se si guarda alla prospettiva del federalismo. In teoria l'offrire maggiori responsabilità e l'imporre maggiori vincoli di efficienza alle regioni del Sud dovrebbe poter spingere le classi politiche locali ad operare meglio che nel passato. Ma a raffreddare le speranze c'è l'esempio delle attuali regioni a statuto speciale e che quindi hanno già ora una larga autonomia: la Sardegna e ancora di più la Sicilia. Ebbene quest'ultima può essere considerata una dei maggiori esempi negativi per il clientelismo e la crescita senza limiti degli apparati pubblici.


E allora prima di chiedersi quale soluzione potrebbe dare al Sud una concreta speranza di crescita, bisognerebbe forse domandarsi se a questo punto possa esistere veramente una soluzione. O se invece non sia il caso di pensare che la situazione attuale sia, come dire, nella natura delle cose.

Per arrivare magari a scoprire che il problema è proprio questo. Pensare che il destino del Sud sia ineluttabile. E invece non è vero. Perchè il destino del Sud è soprattutto nella mani, nella volontà, nell'intelligenza degli uomini del Sud. E quindi meno Stato e più società nella vita economica, ma anche più Stato e più efficienza nella lotta alla criminalità, nella giustizia, nel contrasto al "sommerso" e all'evasione fiscale.


Ed è forse opportuno ricordare il messaggio di don Luigi Sturzo. Sia quando denunciava quelle che egli chiama le tre "male bestie" che inquinavano anche l'ambiente umano: lo statalismo, la partitocrazia, l'abuso del denaro pubblico. Sia quando riferendosi proprio al Mezzogiorno sosteneva che che per combattere le varie mafie non basta superare il sottosviluppo economico, ma è necessario anche uno sviluppo culturale, morale e religioso. E nell'Appello ai Siciliani del 1959, pochi mesi prima di morire scriveva che per un autentico sviluppo bisognava puntare sull'educazione delle nuove generazioni con "scuole serie, scuole importanti, scuole numerose, scuole che insegnano anche senza dare diplomi, al posto di scuole che danno diplomi e certificati fasulli a ragazzi senza cultura".