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La "primavera araba" dopo il G8

Smarritasi la "piazza" araba, occorre passare dalla politica dei desideri a una politica desiderabile. Ecco il memo-tac scritto da George Friedman per i grandi del mondo.

Attualità 27_05_2011
Piazza Tahrir, Il cairo
 
Il primo vertice del G8 dall’inizio della cosiddetta “primavera araba” si conclude oggi a Deauville, in Francia. Sin dalla vigilia, è aleggiata aria da “Piano Marshall” per i Paesi che negli scenari nordafricano e mediorientale «sostengono le aspirazioni democratiche della loro popolazione» (così Nicolas Sarkozy appena prima dell’apertura della due-giorni di lavori). Tradotto, ciò significa che i grandi del mondo intendono accollarsi la “richiesta di danni” avanzata da Egitto e Tunisia a cui la “democratizzazione” costerà una lunga stagione turistica disastrata: Il Cairo rivendica una cifra tra i 10 e i 12 miliardi di dollari fino a metà 2012 e Tunisi chiede 25 miliardi di dollari per cinque anni. Ora, pagato il conto degli ombrelloni disdetti sulle spiagge delle coste sud del Mediterraneo, sarebbe auspicabile che i “grandi del mondo” passassero a ragionare con realismo di quell’area così pericolosamente instabile. In Nordafrica e Medioriente, infatti, la primavera non è mai sbocciata davvero, e in troppe situazioni il clima è già torrido.

La contraddizione fra la pletoricità dei discorsi e le situazioni sul campo non potrebbe infatti essere più stridente, superata forse solo dalla confusione  con cui i Paesi occidentali affrontano la questione. Se la Libia ha infatti improvvisamente meritato l’attenzione, la censura e le bombe di una Francia a cui è andato dietro mezzo Occidente diversamente riluttante, le violente repressioni di cui da mesi sono quotidianamente oggetto le “piazze” di Siria, Yemen e anche Bahrein sembrano non interessare alcuno. Della Tunisia, retta dopo il cambio da un regime militare, nessuno più parla da settimane; l’Egitto è congelato in un limbo surreale che ha cambiato tutto per non cambiare nulla, salvo introdurre la legge islamica a furor di popolo e incrementare le violenze sui cristiani copti; ed evidentemente il resto di quell’enorme e magmatico quadrante (dal Maghreb agli Emirati del Golfo, dall’Arabia Saudita alla Giordania) dev’essere di specchiata democraticità visto che nessuno ne parla più.

George Friedman, lo scienziato della politica che nel 1996 ha fondato ad Austin, in Texas, l’autorevole agenzia di intelligence globale Stratfor (Strategic Forecasting, Inc.), dice bene che «di rado coerenza morale e geopolitica vanno disinvoltamente a braccetto», e questo perché «la geopolitica non è una esercitazione astratta». Ma allora ciò significa che dietro il mito della “primavera araba” si cela un machiavellico calcolo delle opportunità che spinge anzitutto l’Amministrazione statunitense a prodigarsi sì in proclami teorici di libertà a 360 gradi, ma subito dopo a muoversi con i piedi di piombo. Osserva infatti Friedman che se «appoggiare il cambio di regime in Libia costa agli Stati Uniti relativamente poco», appoggiare invece un cambio della guardia per esempio nel Bahrein «si sarebbe dimostrato assolutamente costoso», mettendo gli Usa a rischio di «perdere una delle loro più importanti basi navali nel Golfo Persico» e al contempo propiziando una improvvida e pericolosa «impennata delle proteste sciite nella regione orientale dell’Arabia Saudita, ricca di petrolio». Quanto all’Egitto che ha cacciato Hosni Mubarak con il plauso di tutti, per Friedman «si è trattato più della preservazione del regime che non del suo rovesciamento»: se infatti appoggiare la rivolta lì «avrebbe potuto comportare qualche costo», la cosa è stato invece brillantemente risolta con i «militari in veste di levatrici e oggi ben in grado di mantenere il controllo».

Perché la questione vera è che in quelle regioni l’Occidente continua ad avere spasmodicamente bisogno di alleanze e di punti di appoggio da utilizzare soprattutto contro le mire ancora forti dell’ultrafondamentalismo jihadista. Ora, che ciò sia più facilmente ottenibile con il vecchio sistema delle alleanze con i regimi autoritari di ieri (ma in molti casi ancora oggi ben in salute) o costruendo una nuova rete di rapporti con i governi che potrebbero sorgere dal completo rimescolamento dell’area è la spada di Damocle pendente dal soffitto che sta sopra ogni tavolo di lavoro occidentale, attorno al quale nessuno se la sente di assumere scomode posizioni univoche. Persiste allora la retorica.

Uno dei punto nodali, peraltro, è che quell’angolo di mondo resta assolutamente enigmatico. Come nota Friedman, infatti, «non tutte le dimostrazioni sono rivoluzioni; non tutte le rivoluzioni sono democratiche; e non tutte le rivoluzioni democratiche portano allo Stato di diritto». I circa 300mila manifestanti egiziani dell’“epopea” della piazza Tahrir a Il Cairo, per esempio, «hanno rappresentato solo una minuscola porzione della società egiziana». Per quanto convinti e bene intenzionati essi fossero, «la grande massa degli egiziani non li ha seguiti». Nonostante l’attenzione riservata loro dai media, cioè, per l’analista statunitense la vera notizia venuta in quei giorni dall’Egitto è stata l’enorme maggioranza di persone che non ha manifestato affatto. In questo modo, «la catena delle manifestazioni ha fornito all’esercito egiziano la copertura necessaria a quello che è equivalso a un golpe».

Là dove invece si sono avute rivoluzioni vere, tutto esse sono state tranne che democratiche. Leggi Libia. Qui i ribelli antigovernativi insorti nelle regioni orientali del Paese «restano ambigui», né «si può presumere che essi [….] rappresentino il volere della maggioranza dei libici», e nemmeno dare per scontato «che intendano creare, o siano capaci di creare, una società democratica». I ribelli libici vogliono cioè «disfarsi di un tiranno, ma ciò non significa che non ne instaureranno un altro».

In un Paese come il Bahrein, invece, dove le contestazioni di piazza rappresentano sì il volere della maggioranza sciita discriminata dalla famiglia reale sunnita, è chiaro che si mira a costruire un nuovo regime rappresentativo di quella maggioranza: ma resta altresì oscuro «se si voglia creare o meno anche uno Stato di diritto». Del resto, «immaginiamo per un attimo che la rivoluzione del Bahrain finisca per dare vita a un Paese strettamente allineato con l’Iran e ostile agli Stati Uniti. Forse che Washington lo giudicherebbe un modello soddisfacente di democrazia?».

Insomma, la smania con cui nei mesi scorsi l’Occidente si è affannato ad appoggiare acriticamente e indiscriminatamente la “piazza” insurrezionale, anzi a creare il “mito” stesso della “primavera araba” unitaria e democratica, è stato sin troppo scopertamente il tentativo di farsi perdonare il lungo appoggio accordato a certi regimi autocratici e dispotici del passato (o in serio declino), ma alla fine si è risolto solo in una gaffe ben più indecorosa, emblematizzata dai due casi-limite di Libia e Siria: l’una frettolosamente aggredita in nome di pretestuose ragioni umanitarie, l’altra silenziosamente sopportata per inesistenti motivi di prudenza.

Di fronte a questa grave mancanza di una visione strategica d’insieme, Friedman fa bene a insistere: «Non esiste alcuna “primavera araba”, solo alcune manifestazioni accompagnate da massacri e da qualche straordinariamente vuoto osservatore». Occorre cioè passare dalla politica dei desideri a una politica desiderabile. Per questo quello di Friedman è un memo-tac che al G8, dove si pensa la democrazia cercando di implementarla a vantaggio di tutti, farebbero bene a studiare scrupolosamente.