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IL RITRATTO

La metamorfosi di Delrio: dal saio dossettiano all'eskimo

Il ditino puntato e saccente contro il premier e le accuse continue di fascismo al governo. L'ex ministro Delrio abbandona lo stile da monaco dossettiano che lo ha contraddistinto per vestire i panni dell'agit prop comunista. Il nuovo governo spiazza quel mondo cattocomunista di cui Delrio fa parte e che ora perde il suo potere. 

Politica 14_06_2018
Graziano Delrio rimprovera il premier Conte

A vederlo con quel ditino puntato da maestrina non si direbbe che l’ex ministro Graziano Delrio provenga da una storia monacale di cattolico impegnato nella politica. Con quello spirito di servizio che il suo mentore Dossetti senior aveva impartito a tutti i suoi “figli spirituali”: low profile e potere. Poco clamore, molto ascendente nelle mani. Infatti Delrio il suo esordio nella politica che conta lo fece senza suonare la grancassa, andando a fare colazione all’ora delle Lodi alle sei di mattina da Carlo De Benedetti, e in ufficio si recava a piedi, con le mani dietro la schiena nel faticoso saliscendi dei sette colli, come se avesse ancora un po’ di mistica attaccata alle scarpe.

Disinteressato, quasi a dire: “Guardate che se sono qui è solo per spirito di servizio, potrei essere tranquillamente in un altro posto perché io la politica la fo mica per interessi personali”: mai una polemica, prima con Letta, poi con Renzi, mai una sbavatura. Mai uno scandalo, mai una chiacchiera. Neppure quando da ministro delle Infrastrutture dovette dire di no al collega agli Interni Marco Minniti che chiedeva la stessa cosa che Salvini oggi ha fatto attirandosi le ire di mezze cancellerie europee. Perché per Delrio un no era un no. Era il suo no, autorevole e compassato.

La scuola era quella del dossettismo, cattolicesimo sociale, declinazione non più democristiana, ma ormai saldamente unificata nei campi rossi degli ex (mai) nemici comunisti.

Oggi invece punta il ditino indice alla Camera rimproverando al premier incaricato Conte in fase di fiducia un errore imperdonabile: “Piersanti, si chiamava Piersanti”, gli urla dal suo banco impartendo a questo parvenu foggiano una lezione che se la ricorderà per tutta la vita. Il povero avvocato degli italiani aveva dimenticato il nome del fratello del presidente della Repubblica che fu ucciso da Cosa Nostra nell’80. Nei giorni caldi delle trattative di governo qualche bestiaccia social aveva tirato fuori offese alla sua memoria.

Allora il povero Conte sentì suo dovere esprimere in Parlamento una parola di solidarietà a Mattarella. Ma, sarà stata l’emozione, sarà stato il parlare a braccio, fatto sta che a Conte uscì di bocca un “congiunto”. Così Delrio si incaricò di dare una lezioncina di storia al premier, cui già aveva rimproverato di non essere pronto per guidare il Paese. Il siparietto è diventato virale e in questo modo Delrio si è ufficialmente ritagliato il suo quarto d’ora di celebrità tra i video trend topic della rete.

La metamorfosi di Delrio è tutta in quel ditino indice puntato in alto da omileta del deserto. Il ministro monaco nella sua nuova veste di capogruppo Pd alla Camera ha operato la sua trasformazione diventando un agit prop con eskimo e togliendosi, San Francesco al contraio, il saio dossettiano. Ma con un linguaggio che proprio non gli appartiene. Accusa il premier di essere un pagliaccio, non proprio un complimento né un segno di rispetto.

E scopre parole nuove che Dossetti pronunciava quando la situazione si faceva grave e tremebonda: “Fascista”, “Fascisti”, “Squadristi”, urla a chiunque gli capiti a tiro del neonato governo. Come quando i bambini scoprono le parolacce nuove, non c’è verso di farli smettere, stanno tutto il giorno a metterle dentro in ogni discorso, così Delrio alla guida della pattuglia ridotta e senza più potere dei deputati Dem, usa la parola fascista con quella pesantezza di sguardi da sembrare quasi che ci creda.

12 giugno: “Conte? Un pupazzo, Salvini: pericoloso xenofobo”; 1 giugno:Governo del cambiamento? Anche quello fascista lo era”; 31 maggio: Delrio, l'attacco choc a Salvini: "La Lega? Partito neofascista". Il capogruppo del Pd alla Camera: "Quello di Salvini è un partito neofascista, lavora e cena con i neofascisti europei"; 16 maggio Delrio: "Comitato Lega-M5S come gran consiglio fascismo"; 6 febbraio: Delrio: “Il fascismo è tornato, la politica non può più tacere”. E così via di fascismi andando.

Eppure Delrio è l’uomo che quando Di Maio provò ad avanzare un timido abboccamento con i Dem, dalle parti del Colle, si pensò che eventualmente il suo nome potesse essere adatto a guidare un governo Pd-M5S. Accanto al presidente Mattarella infatti, si racconta che spesso ci sia un fidato e, anch’egli low profile, consigliere. Quel Pierluigi Castagnetti che di Mattarella è amicissimo e di Delrio è praticamente padre politico avendo favorito la sua scalata al potere fin da quando scelse per lui il miglior collegio reggiano per farsi eleggere in Regione e iniziare la sua cavalcata.

Invece la storia è andata come è andata e Delrio si è ritrovato nel non facile compito di guidare la pattuglia parlamentare di un ex partito di maggioranza che per sopravvivere e farsi sentire deve alzare i toni. E’ proprio vero che il potere logora chi non ce l’ha. E lui lo ha perso, almeno in questo giro. Così come a perderlo sembrano esserlo tutte quelle cooperative sociali che in questi anni hanno fatto un bel business con i clandestini spacciati per richiedenti asilo. Un affare che ha portato molti soldi nelle casse di coop di estrazione cattolica, molte delle quali soprattutto nella rossa Emilia di Delrio, provenienti da quel mondo cattolico democratico che è poi la culla culturale dell’ex sindaco di Reggio.

Con la decisione del ministro degli Interni infatti, a perdere una bella fetta di potere è proprio quel mondo cattolico sociale che ha trovato in giunte cattocomuniste molto ascolto alle proprie ambizioni. E la paura di perdere fette di “mercato”, come noto, fa novanta. Infatti il mondo cattocomunista e dossettiano, rappresentato ai massimi livelli proprio da Delrio, è quello che va più in crisi con il blocco dei porti. Proprio quel mondo che più diceva di non volere potere più se ne prendeva.

Intellò della buona causa lo dimostrano. Il tweet di Alberto Melloni che cita Berlinguer e poi il Vangelo di Luca di Gesù che nasce in una mangiatoia perché non c’era posto negli alberghi, è uno dei simboli di questa perdita di potere, alimentata da un ricatto morale che accusa appunto di essere fascisti tutti gli altri. Una tecnica che ha fatto la fortuna del marxismo culturale italiano per decenni.

Che dire? Forse che i cattocomunisti hanno compiuto la loro, ultima, definitiva trasmigrazione. Parafrasando Fantozzi, verrebbe quasi da chiedere a Delrio & company: “Scusi, sarete mica diventati…comunisti?”.