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BREXIT

La lettera della May: separazione dolce dall'Ue

Non una dichiarazione di guerra e neppure un divorzio vero e proprio. La lettera consegnata dalla premier britannica Theresa May a Donald Tusk, a cui chiede di attivare l’articolo 50 (ritiro dall’Ue), è scritta in toni gentili e umili. E traccia un percorso a tappe per una nuova forma di collaborazione fra le due sponde della Manica.

Esteri 30_03_2017
La May firma la lettera della Brexit

Non una dichiarazione di guerra e neppure un divorzio vero e proprio. La lettera consegnata dalla premier britannica Theresa May a Donald Tusk, a cui chiede di attivare l’articolo 50 (ritiro dall’Ue), è scritta in toni gentili e umili, prende in considerazione il punto di vista dei capi di Stato e di governo dell’Ue, ma ribadisce la posizione britannica, votata dalla maggioranza dei cittadini nel referendum di giugno. Non solo: traccia un percorso a tappe per ripristinare una nuova forma di collaborazione fra le due sponde della Manica.

La cosiddetta Brexit entra nella sua fase operativa, nei tempi previsti. Smentite, dunque, le previsioni pessimistiche di chi riteneva che l’obbligo di un voto parlamentare, deciso dall’Alta Corte britannica costituisse un grosso ostacolo alla procedura. Il Parlamento, indipendentemente dalle posizioni assunte dai deputati e dai lord durante la campagna referendaria, ha rispettato la volontà espressa dal popolo britannico, dando pieno mandato a procedere alla May. La lettera con cui la Brexit inizia con: “Il 23 giugno dell’anno scorso, il popolo del Regno Unito ha votato per lasciare l’Unione Europea. Come ho già avuto modo di dire, questa decisione non significa un rifiuto dei valori che condividiamo con gli amici europei. Né è un tentativo di danneggiare l’Unione Europea, né alcuno degli Stati che vi rimangono. Al contrario, il Regno Unito auspica successo e prosperità per l’Unione Europea. Il referendum era invece un voto per ripristinare la nostra autodeterminazione nazionale. Stiamo lasciando l’Unione Europea, ma non stiamo lasciando l’Europa e vogliamo rimanere partner e alleati fedeli dei nostri amici nel continente”.

Ma in concreto, a cosa mira la May? A risolvere con urgenza la questione spinosa dell’unica frontiera di terra, quella con l’Irlanda del Nord. L’obiettivo è quello di mantenerla più aperta possibile, anche per scongiurare eventuali nuove spinte irredentiste dei partiti repubblicani e cattolici. Col resto del continente, invece, il Regno Unito punta a (ri)negoziare un trattato di libero scambio. E qui sarà l’ostacolo maggiore, perché l’Ue punterà, per quanto possibile, stando a quanto ha già annunciato Jean Claude Juncker, ad “alzare il costo” della separazione. Dunque nel breve periodo è abbastanza utopistico pensare a un ingresso del Regno Unito nel Nafta (l’area di libero scambio che già include i paesi europei occidentali extra-Ue), o la stipula di un trattato ex novo. A meno che il Regno Unito non accetti pienamente la libera circolazione dei cittadini, inclusa la partecipazione agli accordi per la distribuzione dei rifugiati. Ma a quel punto, la Brexit non si sarebbe dovuta neppure fare.

Come specifica Theresa May nella sua lunga lettera, in caso di mancato accordo, Regno Unito e Ue continueranno a commerciare sulla base delle regole del Wto. Come scrivevamo alla vigilia del voto referendario, questa opzione commerciale azzera o quantomeno riduce le tariffe protezionistiche sulla maggioranza dei settori produttivi e dei servizi. Ma per migliaia di prodotti, alcuni dei quali strategici come i motori per i mezzi di terra e l’industria aerea, l’agricoltura e il cibo, tornerebbero i dazi.

Difficile prevedere quale sarà il futuro economico di un Regno Unito fuori dall’Ue, che era finora il primo partner commerciale. Si può, piuttosto, vedere quale è stato l’impatto della Brexit sull’economia britannica, da giugno ad oggi. Non è stato così catastrofico come si prevedeva il giugno scorso. Il Pil è cresciuto dello 0,7%, un incremento superiore rispetto allo 0,6% previsto. L’incremento è dovuto soprattutto a una performance del settore manifatturiero migliore di quella prevista. L’Ufficio nazionale delle statistiche britannico registra però una flessione dell’1% negli investimenti. La sterlina ha perso valore, ma non è la catastrofe inflazionistica che si temeva: ha perso il 12% sull’euro e il 15% sul dollaro. Questa svalutazione incentiva le esportazioni e il turismo, ma danneggia un’industria britannica dipendente da materie prime importate. Per evitare un contraccolpo duro sui consumi, la Banca d’Inghilterra ha tagliato i tassi di interesse dallo 0,5% allo 0,25% (il primo taglio dal 2009) permettendo una maggior circolazione del denaro. I posti di lavoro continuano ad aumentare, seguendo una tendenza che sta durando ormai da 5 anni. Prosegue anche la crescita dei salari. L’aumento del reddito individuale, al netto dell’inflazione è dello 0,6%. L’emigrazione diminuisce: rispetto all’anno precedente, sono emigrati quasi 50mila britannici in meno.

In sintesi: fino a qui i britannici non possono dire di stare peggio di prima. In futuro molto dipenderà da qualche tipo di accordo la May riuscirà a strappare dagli ex compagni dell’Unione.