Schegge di vangelo a cura di don Stefano Bimbi
San Colombano a cura di Ermes Dovico
POLITICALLY CORRECT

La frustrazione del terrorista che non viene riconosciuto

A Montreal, Ottawa e New York, terroristi attaccano i concittadini rispondendo all'appello dell'Isis. Ma la polizia non riconosce alcuna connessione fra loro e l'Isis. Così come la politica non riconosce alcuna connessione fra l'Isis e l'islam. E allora è il movimento terrorista islamico che si offende...

Esteri 25_10_2014
"E isseremo la bandiera di Allah sulla Casa Bianca"

L’ordine di scuderia appare chiaramente: l’Isis “non c’entra nulla” con gli attacchi terroristici in Canada e negli Usa. Le autorità non dichiarano altro.

Se “l’Isis non c’entra nulla con l’islam”, la seconda parte dell’affermazione è “i terroristi non c’entrano nulla con l’Isis”. Un anchorman della Cbc, la Tv canadese, twittava subito dopo l’attentato di Ottawa che l’Isis non avesse mire al di fuori del suo territorio, in Siria e Iraq. Nonostante l’evidenza dei fatti abbia dimostrato il contrario, tuttora prevale questa tesi ufficiale. Due giorni dopo Ottawa, a New York, un uomo di nome Zale Thompson, armato di accetta, ha attaccato quattro poliziotti in una stazione della metropolitana del quartiere Queens. Ha ferito due agenti prima di essere colpito a sua volta e ucciso. Anche in questo caso le prime dichiarazioni della polizia ai media sono sempre le stesse: «Non ci sono indicazioni che l'aggressore fosse legato a gruppi dell'estremismo islamico».

Michael Zehaf-Bibeau, l’attentatore di Ottawa, più passa il tempo, più procede l’indagine e meno appare come un “cane sciolto”. Aveva almeno un contatto con la jihad in Siria, un padre combattente nella guerra civile in Libia, dichiarava ai suoi amici la sua intenzione di fare la sua parte nella guerra santa. Martin Rouleau, l’attentatore di Montreal, che ha travolto due soldati con la sua auto, uccidendone uno e ferendo l’altro, era un convertito all’islam radicale e aveva tutta l’intenzione di andare a combattere in Siria. Zale Thompson, l’attentatore newyorkese, aveva la pagina Facebook piena di propaganda jihadista, ritraeva se stesso come un combattente della guerra santa, era dichiaratamente amico della causa del Califfato.

Entrambi i terroristi canadesi e quello americano, hanno seguito pedissequamente le istruzioni rilasciate dall’Isis per compiere attentati in Occidente. Sulla falsariga dei manuali di terrorismo diffusi da Al Qaeda, anche il Califfato dice, per bocca del suo portavoce Muhammad al Adnani: «Affidati ad Allah e uccidilo (l’infedele occidentale, ndr) in ogni modo che ti sia possibile. Non chiedere consiglio a nessuno e non accettare alcun giudizio altrui. Uccidi l’infedele, che sia civile o militare, perché per essi valgono le stesse regole (…) Se non sarete in grado di procurarvi una Ied (mina artigianale, ndr) o i proiettili, sceglietevi quale bersaglio un infedele americano, un francese o qualunque loro alleato. Spaccategli la testa con una pietra, o trafiggetelo con un coltello, o travolgetelo con la vostra auto, gettatelo da un luogo elevato, strangolatelo, avvelenatelo». Zehaf-Bibeau è stato abbastanza “bravo” da trovare un’arma da fuoco e usarla contro Nathan Cirillo, di fronte al parlamento canadese. Rouleau si è dovuto accontentare di usare la sua auto come arma scelta per assassinare un “infedele”. Thompson ha usato un’ascia.

Il buon senso suggerisce come sia impossibile negare la natura terrorista e l’ispirazione all’Isis delle loro azioni. Eppure è quel che la polizia, sia quella canadese che quella americana, stanno facendo nella loro comunicazione pubblica. Lo fanno perché sperano di non dare importanza a un fenomeno sempre più preoccupante. È una strategia seguita da anni, ormai. Nel 2009, Nidal Hassan, ufficiale medico psichiatra dell’esercito degli Stati Uniti, aprì il fuoco contro i colleghi nella base di Fort Hood. Da anni stava mostrando a chiunque la sua rapida radicalizzazione nell’islam. Il suo non fu affatto un fulmine a ciel sereno. Quando uccise i suoi 13 colleghi non fece che urlare “Allah è grande”. E dopo la strage dichiarò pubblicamente di aver agito per conto dei Talebani e della loro causa. Eppure la strage di Fort Hood, tuttora non è riconosciuta ufficialmente come un atto terroristico, ma come un episodio di “violenza sul posto di lavoro”. Cambia poco per lo stragista, che è detenuto nel braccio della morte in attesa di sentenza. Cambia molto, in peggio, per i parenti delle vittime, a cui non viene riconosciuto lo status di orfani e vedove di caduti nella guerra al terrorismo: niente medaglie, niente riconoscimenti, nessun benefit. Dopo la strage di Fort Hood, il silenzio sul terrorismo è diventato un metodo. Persino nelle linee guida del Dipartimento della Difesa “Proteggere la forza: lezioni di Fort Hood” è assente ogni riferimento alla jihad, all’islam, all’islamismo e al terrorismo islamico. Idem per i nuovi manuali per la polizia: l’islam sparisce completamente dal vocabolario delle forze dell’ordine. Su questo punto si sono imposte le lobby musulmane, prima di tutto il Cair, per evitare di “accostare la parola islam alla parola terrorismo”.

E allora l’Isis inizia a sentirsi frustrato. Se nessuno nomina l’islam e nessuno nomina il Califfato, per cosa si combatte e si muore? L’Occidente è diventato a tal punto relativista che fa addirittura perdere la soddisfazione di combatterlo. Il Dottor Male in persona rimarrebbe frustrato e deluso. E allora l’ultima edizione della rivista Dabiq, il foglio (patinato) del Califfato, dà allora precise istruzioni su come identificarsi. Ne va dell’immagine del nuovo franchising del terrorismo. «Ogni musulmano – scrivono i maestri del terrore – deve uscire di casa, trovare un crociato e ucciderlo. È importante che l’uccisione venga attribuita ai patroni dello Stato Islamico e che venga riconosciuta l’obbedienza alla loro leadership. Altrimenti i media dei crociati faranno apparire questi attacchi come assassinii casuali».

La strategia del silenzio sembrerebbe funzionare, a questo punto. Funziona certamente a far arrabbiare gli uomini della comunicazione pubblica dell’Isis, non certo la letalità dei terroristi che agiscono nel suo nome. Come ricordava Rudolph Giuliani, che era ancora sindaco di New York l’11 settembre 2001, «Non puoi combattere un nemico che non vuoi riconoscere». Lo diceva l’anno scorso, dopo l’attentato dinamitardo alla Maratona di Boston, altro caso in cui autorità e media non hanno riconosciuto la natura islamica e terroristica della strage. «Elevare il linguaggio politicamente corretto al di sopra dell’evidenza nel corso delle investigazione, certamente spiega perché non si sia identificato il maggiore Hasan come un terrorista (a Fort Hood, ndr). Il linguaggio politicamente corretto si è espanso a tal punto che l’attuale amministrazione descrive il suo attacco come una ‘violenza sul posto di lavoro’. Ciò non è soltanto ipocrita. Quel che non realizziamo a sufficienza è che tutto ciò è pericoloso».