La domanda che ci costringe a deciderci
Leggendo i racconti delle tredici universitarie, di cui sette italiane, morte in Spagna, si può intuire cosa passi per il cuore di una ventenne che parte per l'Erasmus. E ci si interroga perché si può vivere e decidere di morire da padroni o concepirsi figli. Sono due visioni dell'esistenza opposte. Perché «non sapete né il giorno né l'ora».
Leggendo i racconti di amici e parenti e i commenti delle tredici universitarie, di cui sette italiane, morte in Spagna nella notte fra il 19 e il 20 marzo, si può intuire cosa passi per il cuore di una ventenne che parte per l'Erasmus e lascia, magari per la prima volta, la sua famiglia e la sua patria: il fascino della lingua da imparare e magri da sfoggiare al ritorno insieme ai racconti sugli amici stranieri sparsi per il mondo. E poi, unita a un fondo di timore per ciò che è sconosciuto, l'eccitazione che nasce, chissà perché, dal pensare che il nuovo sia sempre meglio del vecchio. Facile immaginare i preparativi per trovare casa, compilare documenti e cercare i coinquilini con cui condividere l'appartamento. Poi le feste di addio organizzate dagli amici come si andasse per non fare ritorno, sebbene i voli low cost e i social network ormai riducano tempi e distanze: «Mi piange il cuore neanche se stessi andando in guerra», si era detta una delle vittime. E finalmente il giorno della partenza che può lasciare un fondo di apprensione nei cuori delle madri, anche quando si convincono che non bisogna preoccuparsi per quella figlia ormai cresciuta che andrà pur lasciata libera.
Come non figurarsi poi l'euforia per quel viaggio nel viaggio da Barcellona a Valencia con sveglia alle cinque del mattino e ritorno nel cuore della notte? Le studentesse probabilmente avranno girato la città, ballato e assistito agli spettacoli pirotecnici della popolare Festa dei Fuochi, gustando sulla via del ritorno quella complicità fugace che nasce in chi ha partecipato alla stessa “impresa” giovanile di 24 ore non stop.
Viene in mente la cronaca di Dino Buzzati che nel 1947 raccontò sul Corriere della Sera l'incidente di San Primo, in cui 53 passeggeri morirono in autobus di ritorno a una gita in montagna. Lo scrittore descrive i genitori che alla partenza aiutano i figli a prepararsi con una punta di agitazione, anche se «è ridicolo ma ogni volta è così. Non bisogna pensarci». Poi il tragitto insieme, in cui tutti diventano improvvisamente amici, perché la meta è la stessa, e dove si è disposti a viaggiare in condizioni altrimenti inaccettabili. E il pensiero ingenuo che per conoscere la felicità «basta alle volte partire». Infine la tragedia e l'amarezza di scoprire che non è così. Che ci si era illusi, dimenticando sempre un fattore: che prima o poi si deve morire. «Erano quasi tutti molto giovani, bravi ragazzi e ragazze (…). Perché proprio loro?», si chiede Buzzati.
Ma sopratutto perché partire, studiare, fare festa e attendere se tutto finisce? Non si può evitare il quesito di fronte a tante giovani vite (rese apparentemente perfette da Instagram) nel fiore dei loro anni, che erroneamente da cliché consideriamo “i migliori”. L'interrogativo, infatti, non riguarda solo loro ed è insopprimibile. A meno di coprirlo con una coltre di retorica, come ha provato a fare chi si è limitato a constatare che «l'autista non doveva guidare di notte» e che «non è giusto morire così». Come se la morte in altri casi lo fosse, come se, prima o poi, non toccasse a tutti e come se la vita dipendesse solo dagli uomini.
Il padre di una delle vittime ha confessato che ora la sua esistenza non ha più senso e che, insieme alla moglie, si ucciderà: quella figlia era diventata la loro ragione di vita. All'opposto parenti e amici di un'altra vittima hanno subito indetto una veglia di preghiera nella chiesa cittadina: per riconsegnare la ragazza a Colui per il quale ha vissuto. Lei che, aspirante dottoressa per “gli ultimi”, appena messo piede sul suolo spagnolo aveva scelto per prima cosa di cucinare per tutto l'appartamento: «Ha avuto una vita breve, ma vissuta per gli altri». La giovane hanno spiegato parenti e amici, non ha speso la vita rincorrendo la felicità, ma consegnandola. E così è morta, lasciando ai suoi cari la consolazione di un'esistenza consapevolmente donata e quindi pronta.
Si può vivere e decidere di morire da padroni o concepirsi figli. Sono due visioni dell'esistenza opposte, che le tragedie rendono solo più palesi, costringendoci di nuovo a decidere. Perché «non sapete né il giorno né l'ora».