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ECONOMIA

La crisi più lunga della nostra storia

Il Pil italiano è ancora in calo in questo trimestre e quasi 4000 aziende chiudono i battenti nello stesso periodo. Siamo entrati nel sesto anno di crisi, la più lunga della nostra storia patria. E il problema è che si tratta di una crisi strutturale.

Economia 16_05_2014
Chiuso

Ieri in Italia era un giorno strano per l’economia. All'inizio del sesto anno di crisi, la più lunga della nostra storia, da un lato l’istituto della Cgia di Mestre invitava a festeggiare il “Tax Freedom Day”, il giorno in cui i cittadini italiani lavorano per sé e non più per lo Stato, dall’altro l’Istat diffondeva le cifre della crisi nera in cui versa il Paese. Le due cose sono strettamente legate. Da un lato il Tax Freedom Day celebrato al 15 maggio (e solo dai dipendenti con figli) è un indice di quante tasse paghiamo. Dall’altro abbiamo i risultati indesiderati della tassazione.

Partendo dai dati ufficiali, secondo le ultime stime Istat, nel primo trimestre dell’anno, il Pil italiano è tornato a scendere dello 0,1% su base congiunturale, mentre sull’anno il calo è stato dello 0,5%. Siamo molto bassi in Europa, soprattutto se ci confrontiamo con la Germania: il Pil tedesco è cresciuto dello 0,8% rispetto al trimestre precedente e del 2,3% annuo. Tradotto in termini concreti, in Italia, nei primi tre mesi dell’anno sono state 3.811 le aziende chiuse per fallimento, il 4,6% in più rispetto al primo trimestre 2013.

C’è una causa immediata e diretta di questa strage di imprese e di produzione ed è costituita da una tassazione troppo elevata per essere sostenuta. La Cgia di Mestre, con un metodo già molto noto negli Usa, converte il livello di pressione fiscale in giorni lavorati. Se, per esempio, la pressione fiscale è al 50%, è come se un cittadino lavorasse per 6 mesi per lo Stato e per i restanti 6 mesi per sé. Quando si finisce di lavorare per lo Stato, si “festeggia” (o si dovrebbe festeggiare) il Tax Freedom Day. Ieri, 15 maggio, hanno festeggiato solo i più fortunati, i lavoratori dipendenti. Per tutti gli altri la celebrazione è rimandata al prossimo 12 giugno, per i meno fortunati ancora solo all’inizio di luglio. Ma qui si parla di tassazione nominale, non di quella reale. Così come c’è una bella differenza fra la temperatura nominale e quella percepita (che è più calda o più fredda a seconda del livello di umidità), anche per le tasse c’è un loro livello nominale e quello reale, cioè quello che effettivamente esce dalle tasche degli italiani. «Se dal Pil nazionale storniamo la quota di economia sommersa che viene conteggiata a seguito di una convenzione internazionale recepita da tutti i Paesi – leggiamo sul sito della Cgia - è possibile calcolare la pressione fiscale “reale” che grava sui contribuenti “onesti”. Per l’anno in corso, la pressione fiscale “reale” si attesta ad un valore massimo del 53,8%. Ebbene, con questo livello di tassazione il giorno di liberazione fiscale per i contribuenti fedeli al fisco oltrepassa abbondantemente la metà dell’anno e si attesta al 16 luglio». E se si dovessero aggiungere anche le tasse sui consumi, raggiungeremmo una pressione fiscale fra il 60 e il 70%, percentuale, quest’ultima, subita soprattutto dalle piccole e medie imprese commerciali. Queste ultime festeggiano il Tax Freedom Day il prossimo settembre.

È incredibile constatare come il grosso degli italiani lavori per lo Stato e non per sé, per la maggior parte del tempo, come se fosse arruolato in una gigantesca corvée di massa. Forse proprio rendendosi conto di questa realtà, in Parlamento è stato proposto di ri-istituire (già che ci siamo) la leva obbligatoria per il servizio civile, così da dare un lavoro (coatto) ai giovani disoccupati. Il tutto, ovviamente, sempre a carico del contribuente.

È chiaro che con un simile livello di pressione fiscale, non solo vengono a mancare le risorse per i consumi privati, ma cessa pure l’incentivo a lavorare, creare e produrre. Nel lungo periodo non si prevede neppure una riduzione sensibile della pressione, al di là degli 80 euro che rimarranno in più nelle buste paga di chi percepisce un reddito minimo. La previsione può essere fatta sulla spesa pubblica, che deve essere coperta dal gettito fiscale. Dal 1997 ad oggi il trend è impressionante: un incremento del 68,7% della spesa pubblica. Nel 2013 le uscite ammontavano a circa 800 miliardi, interessi esclusi. È difficile pensare che i tagli della spesa affrontati dal governo Renzi siano in grado di invertire sensibilmente questa tendenza. Dunque sarà sempre la tassazione a coprire il buco.

Abbiamo dunque un sistema che drena risorse dal privato per ridistribuirle al pubblico, il settore notoriamente meno produttivo. Ma non solo: abbiamo pazientemente costruito una fama di Paese nemico del business, soprattutto grazie a una serie di sentenze estremamente punitive nei confronti degli imprenditori. Gli ultimi casi, in ordine di tempo, riguardano la centrale termoelettrica di Vado Ligure chiusa perché considerata troppo inquinante, in base a calcoli tutt’altro che certi e indiscutibili. Ancor più eclatante è la sentenza della Corte d’Appello milanese nei confronti di Dolce & Gabbana, due stilisti celebri in tutto il mondo: 1 anno e 6 mesi di reclusione ciascuno, per omessa presentazione della dichiarazione dei redditi. Eppure, solo pochi mesi fa, il pg di Milano aveva fatto a pezzi la ricostruzione della procura e della Guardia di finanza fatta propria dal tribunale in primo grado. «Una condanna penale sarebbe in contrasto con il buon senso», aveva affermato il magistrato. La costituzione della società in Lussemburgo, oggetto della condanna, non configurava un reato perché «l'ottimizzazione del regime impositivo è lecita». La magistratura milanese ha però optato per la linea dura contro chiunque tenda a sottrarre risorse al fisco italiano. Proprio in questa settimana, l’Italia sta facendo una ben misera figura internazionale: l’indagine su appalti e tangenti legati a Expo 2015 a Milano mina alla radice un’iniziativa che interessa agli imprenditori di tutto il mondo. I magistrati milanesi, chiaramente, non possono astenersi dall’indagare. Ma la politica sta cavalcando lo scandalo nel peggiore del modi, a partire da un Beppe Grillo che vorrebbe chiudere Expo prima ancora del suo inizio. Obiettivamente chi investirebbe in un Paese così incerto e instabile?

Peggio che andar di notte è il fronte del lavoro. Il tentativo del governo Renzi di renderlo più flessibile è in gran parte rientrato, dunque, nonostante i buoni propositi iniziali, saremo ancora costretti a tenerci uno dei mercati del lavoro più rigidi d’Europa, uno dei più scoraggianti per chiunque voglia assumere.

Poi ci sono gli effetti (e le cause) di lungo periodo, che sono tutt’altro che risolte. La crisi demografica italiana è una realtà ben visibile già da 30 anni. È la causa di lungo periodo della crisi ed ora ne è anche la conseguenza: senza una certezza sul futuro lavorativo, molte famiglie rinunciano ai figli. Anche perché è diffusa una cultura denatalista, tipica del welfare state, per cui un figlio “ce lo si può permettere” solo se ci sono le risorse: un figlio è visto più come un costo (prima per la famiglia, poi per lo Stato) che non come un futuro produttore di ricchezza. Dunque il calo demografico continua: 1,4 figli per donna, cioè 0,7 punti percentuali in meno della soglia di stabilità demografica.

Infine ci sono gli italiani che scappano e produrranno ricchezza, ma all’estero: cresce del 19% l'emigrazione complessiva, lo scorso anno gli italiani fuggiti all'estero hanno sfiorato quota 100mila. Assume i contorni di una vera e propria "invasione" l'espatrio di italiani in Gran Bretagna: il 71,5% in più rispetto al 2012.

Da queste cifre, più ancora che dal calo del Pil, si deduce che la crisi durerà ancora per molto.