La crisi economica peggiora, occorre realismo
Ci troviamo in una crisi che segnerà la vita degli italiani, ma sia i politici sia i tecnici non riescono a vederne la profondità e fare i conti con ciò che l'ha generata. E il "salvataggio" di Draghi, presidente della BCE, di dieci anni fa, ha generato un peggioramento della nostra situazione di debito.
Ci troviamo alle porte di una crisi che segnerà profondamente il tenore di vita degli italiani: contemporaneamente affligge il settore pubblico e il settore privato escludendo la possibilità di spostare risorse dall’uno all’altro per alleviarne gli effetti mentre in parallelo la classe politica non è neanche in grado di capire le cause che la hanno prodotta. Già da tempo si vociferava della necessità di avere Mario Draghi a capo del Governo per salvare il salvabile e replicare il “miracolo” prodotto durante la sua gestione della BCE e finalmente sembra che il sogno nel cassetto di tutti gli italiani si stia avverando.
Ma Mario Draghi ha veramente salvato l’Italia con le sue azioni non convenzionali messe in campo negli otto anni da governatore della Banca emettitrice dell’Euro?
Sono passati ormai quasi 10 anni da quando gli investitori hanno posto in maniera inequivocabile all’attenzione della amministrazione pubblica italiana che la fiducia rispetto alle capacità di onorare il debito contratto era ormai compromessa: la pioggia di vendite dei titoli italiani e il conseguente aumento del premio di rischio avvenuta a luglio 2011, per quanto spesso sbrigativamente associata ad una semplice manovra speculativa, nascondeva un veritiero rimando a dei fondamentali estremamente deboli del nostro sistema economico.
Era evidente già da tempo che un comparto pubblico in continua ascesa in termini di spesa non era sostenibile con una produttività delle aziende al palo da anni a causa di una tassazione opprimente e di una competitività internazionale sempre più pressante e competente. Per non parlare delle dinamiche demografiche impietose che prospettavano già allora un carico sempre più opprimente sul comparto sanitario e pensionistico a fronte di una capacità produttiva in inesorabile declino.
Chi doveva presidiare questi segnali e indirizzare azioni adeguate non lo ha fatto e all’improvviso ci siamo ritrovati con l’incapacità di contrarre nuovo debito o di rinnovare quello esistente a prezzi abbordabili: si è aperta quella che viene chiamata la crisi europea del debito sovrano che ha investito, tra gli altri, l’Italia in maniera particolarmente aggressiva.
Di fronte alla realtà che si è palesata in maniera così evidente sarebbe stato sensato mettere seriamente mano alla cosa pubblica e ammettere con chiarezza di fronte all’opinione pubblica l’insostenibilità di un welfare come quello cui eravamo abituati rispetto ad una capacità produttiva ormai compromessa. Invece no!
La sinistra, appoggiata dal pensiero mainstream accademico e mediatico di matrice neokeynesiana, ha interpretato la crisi come una semplice fase di un ciclo ineluttabile e dovuto a semplici dinamiche psicologiche periodicamente affliggenti il comparto finanziario. Una periodica fase di depressione dei trader e di scarsa fiducia nell’avvenire che si autoalimenta attraverso segnali negativi che si succedono e si auto-avverano avrebbe generato un crollo tanto improvviso quanto passeggero del mercato.
Basta regalare un po’ di soldi alla finanza con immissione di nuova moneta appena stampata per risollevare gli animi di questi poveri trader e così risolvere il problema!
La destra, arroccata su posizioni nazionaliste — e spesso non poco socialisteggianti — ha anch’essa sottovalutato prontamente il problema addossandone la responsabilità ad ingiustificati attacchi finanziari di Paesi nemici o di fondi troppo potenti, interessati alle ricchezze del nostro paese. La soluzione? La stessa di prima: nuova moneta per difendere l’onore patrio con le stesse armi dell’aggressore.
I tecnici, capitanati da Mario Monti, hanno timidamente approcciato una piccola stretta alle finanze pubbliche, ma — complice anche il poco tempo che hanno avuto a disposizione — con poca convinzione: figli anche loro del maestro Keynes hanno messo in campo azioni che hanno fatto tanto male a qualcuno, ma non in grado di risolvere una situazione ormai cronica, nella speranza che ancora una volta le dinamiche monetarie avrebbero risolto la contingenza e che poi tutto sarebbe potuto ripartire come prima.
Sono consapevole del fatto che in un regime di democrazia rivoluzionaria, dove lo Stato si propone come “fonte di salvezza” da ogni debolezza e precarietà umana è quasi impossibile procedere nella direzione di una riduzione del benessere garantito politicamente. Ma il tempo di crisi è una occasione unica, in alcuni casi irripetibile, per difendere la verità. L’insostenibilità di una società basata sul debito e in gran parte parassitaria è un dato di fatto che nessun politico ha avuto il coraggio di proclamare, tanto meno di proporne soluzioni di lungo di periodo.
Mario Draghi ci ha messo del suo — e con estrema potenza — per assecondare questo processo. Il famoso “whatever it takes” e le conseguenti scelte politiche della BCE non hanno fatto altro che evitare allo Stato italiano di dover fare i conti con la realtà che gli si poneva di fronte. Tra marzo 2015 e gennaio 2021, ovvero dalla partenza del Quantitative Easing nella sua componente di acquisto dei titoli del debito pubblico degli Stati Europei, la BCE ha acquistato 550 miliardi € di titoli italiani (somma di quanto comprato attraverso il PSPP e il PEPP). Nello stesso periodo il debito italiano è cresciuto di oltre 333,5 miliardi €.
Quindi in un contesto nel quale lo Stato Italiano era impossibilitato a fare nuovo debito perché non trovava investitori disponibili ad alimentare le casse di una macchina insostenibile, la BCE ha tolto qualsiasi incentivo alla prudenza e al comportamento da buon padre di famiglia che avrebbe dovuto guidare i nostri decisori pubblici. Siamo liberi di criticare i Paesi “Frugali” quanto vogliamo, ma prima dobbiamo avere questi numeri bene in mente. Negli ultimi 5 anni l’Italia ha continuato a spendere più di quanto riuscisse a raccogliere da una tassazione già a livelli record a tassi di oltre 50 miliardi l’anno, mentre l’Europa per opera della sua Banca Centrale ce ne prestava quasi il doppio (poco importa se gli acquisti siano avvenuti sul mercato secondario: comunque la finanza anticipava soldi sapendo che sarebbe stata rimborsata…).
La quota di debito pubblico italiano nelle mani della propria Banca Centrale è cresciuta in questo periodo dal 5 al 21%, garantendo alla finanza internazionale ed europea di sbarazzarsi di una quota non banale del nostro debito. Forse proprio questo era il vero obiettivo di Draghi.
Adesso la situazione macro della nostra nazione è profondamente più grave di 10 anni fa. Il debito ha raggiunto il valore record di 2.600 miliardi. La struttura produttiva privata è in ginocchio a causa della pandemia che ci affligge da quasi un anno. La debolezza del settore produttivo a fronte dei paralleli non banali incentivi al consumo inoltre rende incombente e sempre più minacciosa l’ombra di un’inflazione che, oltre a mettere ancora più in difficoltà la nostra economia, porrebbe la Banca Centrale di fronte al serio dilemma di dover porre un freno alle politiche espansive inaugurate da Draghi.
Si obietterà che però adesso abbiamo centinaia di miliardi derivanti dal Recovery Fund. Innanzitutto il valore non è poi così stratosferico se confrontato con i numeri snocciolati più sopra e relativi alle manovre monetarie e all’andamento del debito pubblico degli ultimi 6 anni (di cui solo uno è stato afflitto da pandemia).
In secondo luogo, condizione necessaria affinché il capitale possa essere usato in maniera produttiva è che esista un tasso di interesse espressione concreta e condivisa dalla comunità del valore attuale di una redditività futura. Questo dato non esiste perché l’ormai pluriennale manipolazione valutaria ha falsato qualsiasi indicatore di redditività esistente.
Tutti inneggiano ad uno spread a valori generosissimi eppure questo spread non testimonia la disponibilità degli investitori a iniettare capitali nel sistema Italia, ma soltanto la potenza di fuoco messa in campo dalla Banca Centrale.
I Fondi del Recovery verranno quindi usati da politici o tecnici per provare a salvare l’economia, ma in un contesto nel quale mancano informazioni di mercato per poter valutare correttamente dove e come tali soldi possano garantire una solida crescita economica. Verranno quindi destinati in maniera preponderante verso i grandi gruppi industriali a scapito del tessuto produttivo ramificato e specializzato della piccola manifattura italiana. Assisteremo ad un forte consolidamento delle aziende e alla crescita dei già grandi e alla sparizione di tante piccole realtà. Ma in tutto questo le grandi aziende non saranno in grado di assorbire tutta la disoccupazione che si creerà a causa della persecuzione delle piccole imprese e quindi il disagio sociale e la disuguaglianza aumenteranno rapidamente.
Questa la situazione che Draghi si trova a dover gestire con ben poche leve a disposizione. Forse si inventerà qualche altra fantasia finanziaria che rimanderà di qualche mese l’esplosione del problema. Ma rimandare significa far incancrenire e peggiorare la cura che sarà necessaria per rialzarsi, così come è avvenuto nell’ultimo passaggio.
Se avessimo affrontato il problema 10 anni fa forse l’Eurozona sarebbe implosa e la stagione di “lacrime e sangue” sarebbe stata più lunga e dolorosa di quanto è effettivamente avvenuto. Ma l’avremmo affrontata con una economia privata ancora in grado di esprimere valore ed energie che oggi purtroppo sono state decimate da 10 mesi di lockdown e da una logistica internazionale zoppicante. Rimandare significa ormai sempre più peggiorare…