L'EDITORIALE
La crescita, scelte complesse (ma ormai indispensabili)
Ormai tutti paiono convinti che il problema principale sia la crescita; ma il tema non è soltanto economico e politico, è soprattutto antropologico. E per ripartire bisogna rilanciare l'iniziativa personale e ridurre lo Stato.
Editoriali
26_09_2011
Ormai ne sono convinti tutti (o quasi). Il nodo di fondo dell’Italia è innanzitutto quello della crescita, la madre di tutti i problemi. Una crescita almeno superiore al 2% renderebbe maggiormente sostenibile il debito pubblico, aiuterebbe a creare posti di lavoro, farebbe aumentare i consumi interni e quindi la produzione, darebbe più spazi di manovra per la politica fiscale.
Ma individuare il problema è solo un primo, piccolissimo passo per indicarne la soluzione. Anche perché il tema della crescita non può essere affrontato semplicemente sotto un aspetto contabile o monetario, ma coinvolge direttamente la dimensione più ampia dell’economia partendo della scelte personali, ma coinvolgendo le prospettive dell’intera società.
La scienza economica da almeno duecento anni si interroga su quali siano gli elementi che favoriscono la crescita giungendo a conclusioni spesso contraddittorie. Ma con un elemento comune, quello messo in rilievo con estrema chiarezza da Joseph Schumpeter nella sua “Teoria dello sviluppo economico” (1912) e in “Capitalismo, socialismo, democrazia” (1942): il fattore umano con la sua volontà di innovare, di cercare nuove strade, di elaborare nuovi processi, di trovare soluzioni che sappiano sfruttare il cambiamento. Artefice della crescita è quindi l’imprenditore capace di “distruzione creatrice” in una dinamica sociale in cui non vengono eliminati i momenti di crisi, ma in cui la selezione stessa della competitività porta all’affermazione delle persone e delle aziende di successo.
La realtà italiana, fondata sulle piccole e medie imprese, sui distretti industriali, sulle produzioni di nicchia fortemente specializzate o su quelle di massa fortemente innovative, è stata per decenni un esempio concreto della teoria della crescita attraverso l’innovazione. Perché poi, negli ultimi quindici anni, l’economia italiana si è fermata, sembra aver quasi lasciato a sempre meno realtà la strada dell’innovazione e della competizione aperta?
La risposta è ancora nell’analisi di Schumpeter quando spiega il declino e prevede che nell’impresa del capitalismo maturo il ruolo dell'imprenditore, creativo e diretto all'innovazione, viene sempre più sostituito dalla mentalità burocratica e tendente all'immobilismo dei manager. E l’economia si ferma perché nella società si afferma una critica radicale allo sviluppo capitalistico con un’estensione sempre più vasta del ruolo dello Stato che tuttavia riesce sempre meno anche a compiere il ruolo di distribuire con equità la ricchezza prodotta.
Che cosa sarebbe allora necessario per riavviare la crescita? Innanzitutto ridare spazio alle logiche d’impresa, rendere più efficienti i mercati, ridurre il ruolo dei burocrati e i costi dello Stato, spingere con ogni mezzo sulla strada della ricerca, dell’innovazione, della valorizzazione delle capacità creative delle persone. Proprio perché il tema della crescita non è semplicemente economico e non è innanzitutto un problema di risorse finanziarie, ma è un tema che potremmo definire “antropologico” e riguarda l’atteggiamento delle persone di fronte alle proprie scelte.
Ecco allora che una società appagata, in cui non c’è il motore del desiderio, in cui la logica degli interessi domina sulla tensione dei valori difficilmente può trovare la volontà collettiva di crescere. E peraltro quella italiana è una società in cui la maggioranza delle persone ha qualche privilegio: dai pensionati sessantenni (e soprattutto chi spera di diventarlo) ai lavoratori con il posto ipergarantito, dai professionisti difesi dagli ordini ai politici incrollabili, è terribilmente vasta e intricata la ragnatela di chi vuole che tutto resti com’è. Facendo finta di non accorgersi che non modificare il sistema pensionistico è un modo sicuro per rendere insostenibili a medio termine le stesse pensioni, che non liberalizzare le professioni è un modo per rendere sempre meno competitivo il sistema e quindi danneggiare gli stessi professionisti, che non ridurre la spesa pubblica è un modo per rendere troppo pesante per tutti il peso delle tasse, che non tagliare i costi della politica è un modo per penalizzare il senso di partecipazione dei cittadini.
“Meno Stato e più società” è allora uno slogan terribilmente attuale. La strada della crescita richiede scelte complesse, ma ormai indispensabili per rompere la spirale della sfiducia e del declino. Non possiamo più permetterci un modello di Stato così costoso e inefficiente: cambiare rotta è un dovere soprattutto per le giovani generazioni.