La convivenza? Davvero un pessimo test
Tre buoni, anzi ottimi motivi per escludere categoricamente che andare a vivere assieme serva a prepararsi bene al matrimonio.
«La convivenza è un buon test per verificare la compatibilità reciproca e per prepararsi al matrimonio».
Sono davvero moltissimi coloro che lo pensano (anche tra i preti, che non di rado consigliano la convivenza ai fidanzati), e in buona fede.
Ma le cose non stanno così, per (almeno) tre motivi.
1) I conviventi esercitano atti sessuali e questi possono, non di rado, avere un effetto deformante rispetto alla conoscenza reciproca. Infatti, in forza del piacere intenso che spesso provoca, l’atto sessuale può condurre ad attribuire all’altra persona delle caratteristiche positive, può portare ad idealizzarla in modo (più o meno) entusiastico e/o può indurre a minimizzare i difetti altrui o anche semplicemente le differenze (riguardanti il carattere, gli interessi, la visione della vita, ecc.) esistenti e/o può far credere e sperare che le divergenze siano facilmente superabili.
Talvolta inoltre l’atto sessuale diventa il tema dominante del rapporto, diviene ciò attorno a cui ruota tutta la relazione, e finisce per spostare in secondo piano tutto il lavoro di reciproca conoscenza, doverosa tra due persone che si frequentano per verificare se il loro rapporto potrà approdare al matrimonio.
Se durante questa fase idealizzante i conviventi si sposano, c’è dunque un considerevole rischio che non si siano conosciuti in modo realistico e ciò rischia di fondare il matrimonio su elementi fragili, lo espone a crollare col tempo.
Se invece l’iniziale entusiasmo si affievolisce e i conviventi non si sono sposati, le divergenze e le incompatibilità (se ci sono) emergono, ma è per loro più arduo lasciarsi – anche se essi si rendono conto di non essere fatti l’uno per l’altro – a causa del legame profondo che si è instaurato tra loro e per il fatto di dover rinunciare alla piacevole dimensione sessuale del rapporto.
Insomma, l’atto sessuale prematrimoniale può non di rado impedire una vera e profonda conoscenza, può portare persone molto diverse (talvolta finanche incompatibili) a continuare a vivere insieme e magari a sposarsi e dunque aumenta il rischio di sfacelo dell’unione matrimoniale.
In altri termini, l’atto sessuale può cementare il rapporto tra un uomo e una donna, ma solo se si svolge al termine di un lungo percorso di conoscenza reciproca e di elaborazione di un progetto, altrimenti può, a volte (non necessariamente, non sempre) avere un effetto contrario, cioè può portare a far poggiare il rapporto su qualcosa di fragile. Se faccio una colata di cemento sui muri in mattone di una casa in costruzione irrobustisco la casa stessa, ma se faccio la colata di cemento sui muri di paglia di una capanna distruggo la capanna.
Così, per esempio, da uno studio condotto su 6.577 donne americane risulta che: se una donna ha avuto rapporti sessuali prematrimoniali con uomini diversi da quello che è poi diventato suo marito, il rischio di fallimento del matrimonio aumenta fino al 114 % (J. Teachman, Premarital Sex, Premarital Cohabitation, and the Risk of Subsequent Marital Dissolution among Women, «Journal of Marriage and Family», 65 [2003], p. 452).
Certo, i motivi del fallimento sono molteplici e non riducibili ai soli rapporti prematrimoniali, ma questi rapporti sicuramente incidono in modo significativo.
Certo, falliscono anche alcuni matrimoni di chi vi è arrivato casto, ma in misura clamorosamente minore; anche qui il tasso di minor fallimento dipende da vari fattori, ma l’assenza di rapporti fisici è un fattore molto rilevante della buona scelta del coniuge e quindi della successiva tenuta del matrimonio.
2) Inoltre, chi ha convissuto, quando poi si sposa divorzia più facilmente, perché nel corso della convivenza si è abituato (magari inconsapevolmente) all'idea che i rapporti e le relazioni tra uomo e donna siano esperienze “a termine”, “con clausola di rescissione” e che quindi possano cessare.
3) Ancora, come spiega bene lo psicanalista francese Tony Anatrella (Felici e sposati. Coppia, convivenza, matrimonio, ESD, Bologna 2007, pp. 64-68 e 82), sulla scorta di una lunga esperienza maturata attraverso l’ascolto e la psicoterapia, alcune dinamiche ed abitudini che si sono formate durante la convivenza impediscono facilmente (sebbene non necessariamente) ad un convivente di sentirsi davvero del tutto libero, di fronte all’altro, di decidere se sposarlo oppure no. Vivendo insieme, i conviventi rischiano di ostacolarsi nella scoperta di ciò che desiderano veramente, perché la risposta a molte delle domande su di sé e sulla solidità della coppia deve essere cercata anche da soli, invece che nella vita che trascorre continuamente insieme, dove la persistente presenza dell’altro e il flusso continuo dei sentimenti non aiutano la conoscenza dell’altro, dei propri desideri, della persona che davvero fa per noi, ecc. Anche Pascal rilevava l’importanza, per autoconoscersi bene, di riflettere su se stessi nella propria camera, cioè in solitudine. Ma stare da soli nella propria camera è evidentemente precluso quando si convive.
Senza la possibilità di riflettere da soli – prosegue lo psicanalista francese – le domande di ciascuno rischiano di restare senza risposta, e il convivente rischia di trovarsi in una situazione in cui non è più davvero libero di scegliere. Non a caso, ci sono alcuni conviventi che si separano volutamente per alcuni mesi, per cercare di riflettere da soli. Ma quelli che invece stanno insieme, rischiano, a volte, di sposarsi senza essere veramente fatti l’uno per l’altra, corrono il rischio di costruire dei matrimoni fragili, dato che non hanno potuto alternare i momenti dello stare insieme e dello stare presso di sé, di cui è invece fatto il fidanzamento.
Dell’inimicizia tra convivenza e matrimonio, di cui abbiamo scritto alcune motivazioni, si trovano ormai diverse conferme in varie ricerche sociologiche: per esempio, uno studio di due ricercatori della Bowling State University (USA) ha documentato che il rischio di naufragio del matrimonio aumenta del 46 % quando i coniugi hanno precedentemente convissuto (cfr. A. De Maris – K. Vaninadha Rao, Premarital Cohabitation and Subsequent Marital Instability in the United States, «Journal of Marriage and the Family», 54 [1992], pp. 178-190: da notare che questo studio ne passa in rassegna diversi altri, che hanno dato risultati simili; più recentemente cfr., per citare solo due studi tra i tanti possibili, Le Bourdais e altri, The changing face of coniugal relationships, «Canadian Social Trends», 56 [2000], pp. 15-16 e M. McManus – H. McManus, Living Together. Myths, Risks & Answers, Howard Books, New York 2008, p. 61).
Insomma, con buona pace di tanti preti che consigliano la convivenza e che affermano (erroneamente) che la Chiesa non biasima la convivenza e non biasima i rapporti sessuali prematrimoniali se c’è il matrimonio in vista, le precedenti righe valgono come motivazioni laiche (insieme a diversi altri motivi che qui non possiamo aggiungere) di sostegno all’affermazione fatta da Benedetto XVI in Croazia il 5 giugno 2011: «Care famiglie, siate coraggiose! Non cedete a quella mentalità secolarizzata che propone la convivenza come preparatoria, o addirittura sostitutiva del matrimonio! Mostrate con la vostra testimonianza di vita che è possibile amare, come Cristo, senza riserve, che non bisogna aver timore di impegnarsi per un’altra persona!».
Ps: gli studi citati sono solo di supporto (e molti altri simili se ne potrebbero citare); le argomentazioni (la cui ragionevolezza verrà giudicata da chi legge) 1 , 2 e 3 sono ciò che conta davvero.