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a cura di Stefano Fontana

Il tema

La controcultura del suicidio

Gomez Davila aveva intuito che al centro delle trasformazioni della cultura e della politica si sarebbe imposta la questione del suicidio. Due famosi suicidi: il “suicidio dei cattolici” e il “suicidio della rivoluzione”, secondo Gramsci e Del Noce.

Dottrina sociale 27_09_2025

Uno dei famosi aforismi di Nicolas Gomez Davila diceva che «le cose buone non muoiono che per suicidio». Aveva intuito che al centro delle trasformazioni della cultura e della politica si sarebbe imposta la questione del suicidio: l’avversario va suicidato. Le cose vere, buone e belle, secondo Davila, non possono essere sconfitte. Anche Socrate diceva che nessuno può essere obbligato a fare il male, se non lo vuole fare. Si può essere costretti a farlo, ma non a volerlo fare. Per san Tommaso d’Aquino la verità (e quindi anche il bene) in seipsa fortis est et nulla impugnatione convellitur. Le cose buone non possono essere sconfitte, possono solo uccidersi da sé.

Il riconoscimento del suicidio come il primo dei “diritti umani” – anche nel parlamento italiano se ne discute e in Inghilterra il riconoscimento, alla Camera dei Comuni, è già avvenuto – permette l’estinzione dell’uomo non prodotta dall’esterno, ma dall’interno. Chi odia l’uomo non gli sta davanti minacciandolo, gli sta dietro le spalle e gli insegna ad odiare sé stesso. Il suicidio, così antinaturale, diventa quasi naturale.

Oggi i titoli di conferenze e libri sul “suicidio” dell’Occidente non si contano. Tutti sono d’accordo che l’Europa si stia suicidando e che ciò avvenga dall’interno e consapevolmente, dato che il primo attore del suicidio è l’Unione Europea, ossia lo strumento creato dalla stessa Europa per darsi la morte.

Se andiamo alle fonti del passaggio dalle ideologie ottocentesche alla situazione attuale, incontriamo due altri famosi “suicidi” strettamente legati l’uno all’altro. Essi, a quel tempo solo agli esordi, hanno poi fatto una lunga strada. Il primo è il “suicidio dei cattolici” e il secondo è il “suicidio della rivoluzione”. In altre parole, incontriamo Antonio Gramsci (e Augusto Del Noce). Su L’Ordine Nuovo dell’1 novembre 1919 il giovane Gramsci scriveva che i cattolici democratici avrebbero condotto il mondo cattolico al suicidio e lo avrebbero consegnato nelle mani dei comunisti. Sappiamo bene che proprio questo è avvenuto. Oggi, davanti ad un disegno di legge sul suicidio assistito, i cattolici, ormai suicidatisi, sono divisi e ininfluenti. Secondo Gramsci il suicidio dei cattolici voleva dire la secolarizzazione, ossia il passaggio da una cultura della trascendenza ad una dell’immanenza. Questo era per lui l’obiettivo del Partito Comunista, che richiedeva però, come scrisse in seguito Del Noce, un altro suicidio, quello della rivoluzione (Il suicidio della Rivoluzione, Milano, 1978) e la trasformazione del Partito in un partito radicale di massa che demolisce senza più costruire, che non combatte per qualcosa e contro qualcuno ma che solo sollecita il suicidio.

La tattica grossolana di distruzione delle cose buone usa violenze e minacce. Il cristianesimo e la Chiesa ne ha sopportate, e superate, tante. Finché si trattava di tattiche poco raffinate da parte di nemici esterni, identificabili dai radar, le contraeree erano pronte a reagire. Nei tempi più vicini a noi, però, i nemici hanno adottato anch’essi la tattica del suicidio. Massoneria e modernismo raffinarono le loro tecniche ed Ernesto Buonaiuti disse che «fino ad oggi si è voluto riformare Roma senza Roma, o magari contro Roma. Bisogna riformare Roma con Roma; fare che la riforma passi attraverso le mani di coloro che devono essere riformati». Ossia suicidati.

Stefano Fontana