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GUERRA

La Coalizione abbandona i curdi. Il Califfato trionfa

Nonostante gli appelli e le manifestazioni attuate in tutto il mondo dalla diaspora curda nessuno sembra voler intervenire per impedire la caduta ormai imminente di Kobane, la cittadina  della Siria settentrionale. Una sconfitta per l'Occidente e per la Coalizione guidata dagli Usa, un trionfo per il Califfato.

Esteri 08_10_2014
La bandiera dell'Is a Kobane

Nonostante gli appelli e le manifestazioni attuate in tutto il mondo dalla diaspora curda nessuno sembra voler intervenire per impedire la caduta ormai imminente di Kobane. La cittadina  della Siria settentrionale, che gli arabi chiamano Ain al-Arab, è divenuta nelle ultime tre settimane il simbolo della resistenza all’avanzata dello Stato Islamico (Is). In Siria come in Iraq le milizie curde sono di fatto le uniche forze militari in grado di contrastare, pur in inferiorità di mezzi, le truppe del Califfato.

La resistenza dei curdi di Siria, appoggiati dai miliziani del Pkk (il Partito curdo dei lavoratori che per decenni ha dati filo da torcere ad Ankara) era fin dall’inizio senza speranze in assenza di un intervento esterno. Privi di armi pesanti, i miliziani curdi non hanno potuto impedire che una settantina di villaggi lungo il confine turco venissero occupati dai jihadisti. Hanno avuto solo il tempo di evacuare i civili (che in 180 mila hanno cercato scampo in Turchia) e hanno concentrato le forze a Kobane cercando di resistere il più a lungo possibile sperando in un intervento internazionale. La Coalizione ha effettuato qualche raid aereo nell’area distruggendo alcuni veicoli e postazioni dell’Is, incursioni limitate e sporadiche, ininfluenti per l’esito della battaglia che resta comunque a bassa intensità se diamo credito ai dati forniti dall’Osservatorio siriano per i diritti umani che ha contato in tre settimane circa 400 morti in battaglia: 219 jihadisti, 164 combattenti curdi, 9 membri di milizie loro alleate e 20 civili, quattro dei quali decapitati dall'Isis. Dati forse non molto affidabili considerato che lo stesso Osservatorio rileva che le vittime in realtà potrebbero essere il doppio.

Di certo ora che gli uomini del Califfato sono penetrati in città è ancora più difficile colpirli dal cielo e la sorte dei difensori è segnata. Più il tempo passa e più si indeboliscono: non riescono a ricevere rinforzi né rifornimenti, né a evacuare i feriti. La caduta di Kobane suona come una campana a morto per la credibilità della Coalizione e dei Paesi che la compongono. Costituitasi sull’onda dello sdegno per le popolazioni cristiane e yazide massacrate o rese schiave in Iraq, la strana alleanza che ingloba i Paesi arabi e occidentali che hanno armato e nutrito le milizie jihadiste che oggi dicono di voler combattere, assiste senza muovere un dito  alla disfatta dei curdi a Kobane. Una nuova tragica beffa per quel popolo castigato dalla storia. Già nel 1991, al termine della guerra per la liberazione del Kuwait, i curdi vennero esortati da Washington a insorgere contro Saddam Hussein che li sterminò per mesi prima che le potenze occidentali intervenissero assumendo il controllo di una fascia di territorio iracheno a nord del 36° parallelo.   

La battaglia per Kobane non ha poi solo un significato simbolico, ma anche strategico perché con la sua conquista  il Califfato congiunge i territori sotto il suo controllo in Siria e Iraq e consolida le posizioni su gran parte del confine turco-siriano. Il presidente turco Recep Tayyp Erdogan, da un lato invoca un intervento terrestre contro l’Is (ma solo a patto che Washington e la Coalizione si impegnino anche a far cadere il regime di Bashar Assad) che solo il suo esercito però può attuare in tempi brevi e dall’altro chiede l’aiuto della Nato contro la minaccia jihadista ai suoi confini. 

Con l’ormai consueta ambiguità, dopo aver mostrato i muscoli schierando una divisione con 10 mila militari e 100 carri armati sul confine, Ankara sembra volersi sottrarre forse nel timore di dover fare i conti con un’offensiva terroristica o forse perché in fondo non le dispiace che i combattenti del Pkk vengano fatti a pezzi dai jihadisti. In una Coalizione che alle tante parole contro il Califfato ha fatto seguire solo blandi raid aerei è possibile che la Turchia non voglia essere l’unico membro a farsi invischiare in una guerra terrestre contro l’Is, movimento che con i qaedisti del Fronte al-Nusra ha potuto contare per tre anni sulla compiacenza turca per rifornirsi di armi e volontari attraverso il confine. Mentre l’Iran denuncia «la passività della comunità internazionale» di fronte all'offensiva dell'Is a Kobane, il Wall Street Journal sintetizza l’immobilismo occidentale rilevando che il Califfato «ha piantato la sua bandiera nera sulla porta di ingresso della Nato». Con un editoriale che rimprovera a Obama di non aver fatto cadere il regime di Bashar Assad, nemico giurato degli islamisti, il quotidiano economico americano ben sintetizza la confusione degli osservatori occidentali in questa guerra caratterizzata dal “tutti contro tutti”.

Sul piano strategico e politico tutti gli elementi citati contribuiranno a galvanizzare ulteriormente le forze jihadiste e a rafforzare la popolarità del Califfato che vince a dispetto dei raid aerei e sfida con successo le più grandi potenze occidentali e arabe. Restando a guardare Kobane che cade favoriamo l’adesione di decine di altri gruppi terroristici al Califfato e l’afflusso di altre decine di migliaia di volontari a combattere per Abu Bakr al-Baghdadi rafforzandone l’immagine di invincibilità e la convinzione della nostra codardia.  Errori di cui, inevitabilmente, pagheremo il prezzo.