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COMUNISMO

La Cina teme la piccola Hong Kong

Infuria la protesta della società civile a Hong Kong, dopo la soppressione della riforma democratica. L'ex colonia britannica, uno dei fari del capitalismo mondiale, è ormai parte integrante della Cina comunista, da quando Margaret Thatcher la cedette a Pechino. La Cina ha paura del contagio democratico.

Editoriali 02_09_2014
Protesta a Hong Kong

Niente democrazia per Hong Kong. Dopo le massicce proteste di “Occupy Central”, il movimento democratico locale e un referendum simbolico per l’indipendenza, che ha registrato la partecipazione di quasi un milione di cittadini, la Cina ha pronunciato l’ultima parola. E ha stroncato ogni speranza.

Hong Kong è protetta dalla “Basic Law”, una piccola Costituzione democratica, in vigore fino al 2047. L’aveva redatta una commissione mista della città-stato e Repubblica Popolare Cinese, dopo cinque anni di lavori, dal 1985 al 1990. Allora, Hong Kong era ancora l’ultima colonia dell’Impero Britannico in Asia orientale. Nel 1997, il governatore Chris Patten (attuale presidente del comitato di riforma dei media in Vaticano) lasciò il suo incarico e la città passò sotto la sovranità della Repubblica Popolare. Fino a quel momento, Hong Kong, aveva goduto della libertà tipica della Gran Bretagna.

L’annessione alla Repubblica Popolare, otto anni dopo il massacro di Tienanmen (4 giugno 1989), compiuto dal regime comunista di Pechino, è stato un salto nel buio per i sei milioni (allora) di abitanti di Hong Kong. Per sensibilizzare il mondo sulla possibile perdita di libertà e di caduta di una città libera nelle mani del totalitarismo cinese, dal 1997 ad oggi, il Fronte dei diritti umani e civili, un’organizzazione ombrello che raccoglie movimenti liberali, democratici e cattolici, organizza una “Marcia del Primo Luglio”, da Victoria Park fin sotto al Central, l’ufficio del governo cinese. L’edizione di questo primo luglio è stata ancor più frequentata. Le stime parlano di almeno 550mila presenze. Il successo era dovuto alla mobilitazione referendaria del 20-29 giugno. A scopo puramente dimostrativo, infatti, il movimento civile Occupy Central, ha organizzato un referendum, in cui si chiedeva l’elezione diretta, con suffragio universale del governatore e dei deputati. Di fatto si trattava di un voto per l’indipendenza. Dopo due mesi di gestione della crisi, il 31 luglio è arrivata la risposta da Pechino. La nuova legge di Hong Kong prevede, per il 2017, il suffragio universale, ma i candidati per la carica di governatore dovranno essere scelti da un comitato di 1200 membri, costituito da persone scelte da Pechino e dall'esecutivo locale, oltre che da rappresentanti del mondo del business.

La risposta cinese, comunque, non ha affatto fermato le proteste. Anzi. Gli organizzatori di Occupy Central daranno inizio, d’ora in avanti a una nuova fase di resistenza non-violenta con un sit-in permanente nel quartiere finanziario. Mossa a cui la polizia ha già risposto con il dispiegamento di 7000 agenti. Lau Kim-ling, Segretario esecutivo del Movimento degli studenti cristiani, ha dichiarato all’agenzia Asia News: «Questa proposta (di Pechino, ndr) è del tutto inaccettabile. Noi non permetteremo mai che divenga realtà, perché così facendo daremmo credibilità a una farsa. Hong Kong è più che pronta ad avere una piena democrazia. Noi non viviamo in Corea del Nord». Secondo Lam Po-sin, giovane commerciante, «la decisione cinese non soddisfa i nostri desideri. Credo che il movimento Occupy Central sia uno dei pochi mezzi che la popolazione di Hong Kong ha per esprimere il proprio pensiero. È cruciale che il territorio, un centro internazionale, incontri i livelli standard di democrazia internazionale».

Senza esagerare col pessimismo, potrebbe però trattarsi della fine del sistema “uno Stato, due sistemi”, che sinora aveva regolato i rapporti di coesistenza di Hong Kong e Pechino. Una volta decisa la restituzione della colonia alla Cina, infatti, il governo britannico si era premurato di assicurarne l’autonomia, la sopravvivenza del suo sistema legale britannico e una implicita road map per l’adozione di un sistema politico democratico. La decisione del passaggio di consegne fu presa con la Dichiarazione Congiunta Sino-Britannica del 1984. Allora, era premier Margaret Thatcher, conservatrice, conosciuta come la “Lady di Ferro” per la sua determinazione e scarsa inclinazione al compromesso. Quello che fece con la Cina, però, fu un compromesso di proporzioni storiche. Emily Lau, una giornalista di Hong Kong, subito dopo la conclusione del negoziato fra Londra e Pechino, ha ricordato di recente di averle chiesto se non fosse preoccupata di abbandonare 6 milioni di cittadini nelle mani di una dittatura comunista. Margaret Thatcher le rispose, semplicemente, che la maggioranza dei cittadini di Hong Kong fosse lieta del compromesso «Forse con la sola eccezione della signorina Lau». A trent’anni esatti di distanza da quel compromesso, la maggioranza dei cittadini di Hong Kong ha paura di essere fagocitata dalla Cina e di perdere tutta la libertà finora conservata.

A cosa mirava Margaret Thatcher, 30 anni fa, con la Dichiarazione Congiunta? Come mai, nonostante il suo risaputo anticomunismo, ha ceduto alle richieste di Pechino? Non si trattava solo di un mero calcolo dei rapporti di forze, con una piccola Hong Kong indifendibile di fronte al miliardo di cinesi continentali. Si trattava anche di una speranza. Speranza nella libertà, prima di tutto. Nel 1984, la Cina, sotto Deng Xiao Ping, aveva appena avviato un coraggioso percorso riformatore, adottando gradualmente un sistema economico di mercato. Allora si pensava che questo percorso fosse continuato anche con una riforma democratica. In questo contesto, la Thatcher pensava che Hong Kong (che lei definì una “una comunità vitale e prospera che unisce il talento cinese, l’amministrazione britannica, libertà, giustizia e una nascente democrazia”) potesse essere di esempio per una Cina che cambiava. Intervistata dalla Cnn nel 1997 (al momento del passaggio di consegne) l’ormai ex premier britannica, dichiarava che «Naturalmente, siamo tutti preoccupati. “Uno Stato, due sistemi” fu un’idea di Deng Xiao-ping. La vera domanda è: lasceranno (i cinesi, ndr) veramente al popolo di Hong Kong la possibilità di godere pienamente della vita e della libertà di una nascente democrazia?». Nella stessa intervista, la Thatcher ammetteva: «Quando (Deng, ndr) parlava di “due sistemi” non pensava affatto alla democrazia, non gli passava nemmeno per la testa. Fu molto chiaro, in merito. Ci disse che Hong Kong avrebbe conservato il nostro sistema capitalista e la nostra libertà economica, gli ingredienti che hanno prodotto prosperità. E questo lo sapeva, perché aveva girato nel mondo e aveva visto quanto il sistema comunista avesse prodotto solo miseria. Sapeva anche che ci fosse qualcosa di veramente magnifico nella legge britannica. E così ci disse che avremmo potuto conservare questi due elementi».

A 30 anni dal compromesso della Thatcher, Hong Kong è ancora la città-stato più liberista del mondo, sempre in testa alla classifica dell’Index of Economic Freedom. È anche una città-stato ricca, con un Pil pro-capite di 52.722 dollari, il settimo più alto nel mondo secondo le stime del Fondo Monetario Internazionale (l’Italia, giusto per fare un paragone, ha un Pil pro-capite di 30.289 dollari, 31ma nel mondo). E questo nonostante sia parte della Repubblica Popolare Cinese, che è una delle economie più povere del globo, nonostante la propaganda martellante sulla sua crescita impetuosa: un Pil pro-capite di 9.844 dollari, 93ma nel mondo. A Hong Kong, ogni anno, il 4 giugno, si celebra l’anniversario della strage di regime in Piazza Tienanmen, la stampa è libera e i media sono tutti di proprietà privata. Eppure è solo una regione autonoma della stessa Repubblica Popolare Cinese in cui la strage di Piazza Tienanmen è ufficialmente cancellata da Internet e da tutti i libri, i media sono censurati e controllati dal governo, nessuna televisione, radio o testata giornalistica è di proprietà privata.

Quanto durerà? Questi ultimi sviluppi non fanno ben sperare. Il fatto che la Cina abbia bloccato un processo di riforma democratica non fa ben sperare. Di sicuro smentisce, almeno in parte, almeno per il momento, la previsione della Thatcher, che aveva sostenuto: «La storia del mondo dimostra che la libertà personale e quella politica, seguono (quella economica, ndr). Ma impiegano più tempo ad affermarsi, molto più tempo». Invece è il regime di Pechino che sta, lentamente ma inesorabilmente, contagiando la ex colonia britannica liberale. D’altra parte, se la Cina censura addirittura ogni riferimento su Internet che riguarda i moti di Piazza Tienanmen, è proprio perché teme la democrazia. La classe dirigente comunista ha visto quanto fu facile il crollo dei sistemi sovietici in Europa, appena dopo le prime parziali libere elezioni concesse dal regime polacco nel 1989: il resto del castello di carte cadde in meno di 6 mesi in tutta l'Europa dell'Est. Se Pechino dovesse accettare libere elezioni in un pezzo del suo territorio, il monopolio del Partito Comunista vedrebbe aprirsi una prima crepa al suo interno. Ed è per questo che farà di tutto per impedire alla popolazione locale di far sentire la propria voce, di eliminare quella "bomba ad orologeria" democratica lasciata in eredità da Margaret Thatcher.