La caduta di Johnson, il leader che sprecò un trionfo
Boris Johnson ha rassegnato le dimissioni, dopo la ribellione di massa del suo governo. Non è stato punito solo per gli scandali personali, come il Partygate, ma perché ha tradito le aspettative degli stessi conservatori che lo sostenevano. Culturalmente e in economia si è allineato ben presto alla sinistra su svolta verde e nuovi diritti.
Sulla caduta di Boris Johnson si sono già scritti fiumi di inchiostro. Quasi tutti articoli di giubilo, considerando che era il più inviso fra i leader europei, accusato di aver promosso e poi portato a termine personalmente l’uscita del Regno Unito dall’Unione Europea. È stato considerato un “clown” (copertina dell’Economist, il giorno delle sue dimissioni), un “premier che ha rovinato l’immagine del Regno Unito”.
Più che le sue politiche sono stati gli scandali personali a rovinarlo. Johnson aveva infatti vinto tutte le sue battaglie, contro ogni previsione, dimostrando un talento politico non comune. Aveva scommesso sulla Brexit contro la leadership del partito e ha vinto. Aveva ereditato il partito in pieno marasma post-Brexit dopo le sconfitte incassate da Theresa May e ha vinto le elezioni con la più ampia maggioranza dal 1987. Tutti davano per spacciato il negoziato con l'Ue e si preparavano ad un'uscita "disordinata" dall'Unione, ma Johnson ha portato a casa anche un accordo che tuttora regge, nonostante le difficoltà sull'Irlanda. Durante la pandemia, nonostante il linciaggio mediatico a cui è stato sottoposto e la decisione di imporre un duro lockdown (che non piace ai conservatori), è stato il primo a condurre una campagna vaccinale di successo, pur senza imporre obblighi e "metodi persuasivi" alla cinese. Ed è stato uno dei primi in Europa a riaprire tutto, rispettando le date promesse.
Quali mai scandali possono aver provocato la sua caduta, dopo un'ascesa così costante? L’ultimo è quello che riguarda Chris Pincher, “deputy chief whip” (responsabile dell’ordine del gruppo alla Camera dei Comuni) che da ubriaco ha molestato due uomini, di cui uno parlamentare. Johnson aveva dichiarato di non avere idea della cattiva condotta di Pincher, poi sono emerse le prove che ne fosse al corrente, ma non avesse agito. L'immagine del premier era stata incrinata dal Partygate: mentre tutto il Paese era chiuso nel lockdown (da lui stesso ordinato) lui aveva festeggiato con ospiti e senza mascherina nella sede del governo, il 10 di Downing Street. Anche in quel caso, prima aveva negato, poi sono emerse le prove che lo hanno incastrato. Già era sopravvissuto al voto di fiducia, all’interno del suo partito, ora, dopo il secondo scandalo, non ha potuto reggere alla raffica di dimissioni dei membri dell’esecutivo. Johnson ha gettato la spugna dopo che oltre cinquanta membri del suo governo (ministri, sottosegretari, funzionari e tecnici) avevano rassegnato le dimissioni come segno di sfiducia.
Gli scandali sono il culmine di un malessere che si accumulava da tempo nei suoi confronti. Ma non bisogna farsi confondere troppo dalle analisi dei mass media italiani, o di quelli più “europeizzanti” nello stesso Regno Unito. La Brexit, infatti, non è mai stata messa in discussione, in tutte le polemiche che hanno riguardato direttamente Johnson. Fuorviante anche la reazione di giubilo della Russia, dell’ex presidente Medvedev in particolare: Johnson non è stato punito per il suo aperto sostegno all’Ucraina e all’ingresso di Svezia e Finlandia nella Nato. Su questi temi c’è infatti un ampio consenso bipartisan nel Regno Unito, anche fra i laburisti (salvo la corrente ormai minoritaria di Corbyn).
Quella contro Johnson è stata soprattutto una rivolta dei conservatori contro un premier che era riconosciuto, ormai, come un fattore di debolezza in un momento difficile. Prima di tutto, per la sua reputazione personale, incrinata dagli scandali: un elettorato che soffre per l’inflazione e per i problemi economici che tutti noi stiamo vivendo, può tollerare ancora meno un leader sorpreso a mentire e a coprire una cattiva condotta personale. Il Partygate è stato un atto di arroganza, nel momento in cui il paese intero soffriva chiuso in casa. Sul piano più prettamente politico, gli osservatori più attenti accusano Johnson di non essersi dotato di una squadra funzionante. Il voler fare tutto da solo, come tipico dei leader di rottura, è stato inizialmente il segreto del suo successo, ma alla lunga non ha pagato. Dopo un po’ di scommesse vinte, è arrivato il momento in cui la mancanza di riflessione e di lavoro di gruppo si è fatta sentire.
La vera debolezza di Johnson, però, è stata nella mancanza di coerenza. Ed è ancora più grave, considerando l’enorme importanza del processo di uscita del Regno Unito dall’Unione Europea che lui stesso aveva avviato. Come spiega Allister Heath, editorialista conservatore: “La sua mancanza di un’ideologia di guida, oltre all’ambizione personale e all’interesse personale, non gli permise di comprendere perché così tanti fra i suoi sostenitori si sentissero ideologicamente traditi dal suo programma fatto di più tasse e più spese. È diventato evidente ben più dell’anno scorso che non avremmo mai vissuto una lunga era Johnsoniana, come credevo possibile all’indomani delle elezioni. Non c’è stato alcun nuovo modello economico e sociale a lui ispirato, nessun grande progetto per rimodellare la Gran Bretagna in stile Thatcher.”
Nelle battaglie culturali Johnson si è ben presto allineato al mainstream, sui programmi ecologisti ha promesso auto elettriche, riduzione delle emissioni, adesione ai parametri degli accordi di Parigi. Sulle grandi questioni etiche non ha perso occasione per mostrarsi allineato alla sinistra culturale. Solo per fare tre esempi nell'ultimo mese: ha mandato un messaggio di sostegno ed incoraggiamento al gay pride, accogliendo anche leader della comunità Lgbt a Downing Street. Ha contestato la sentenza della Corte Suprema degli Usa sull’aborto, giudicandola un “passo indietro”. Nell’ultimo vertice G7 ha adottato uno dei più triti e ritriti luoghi comuni femministi affermando che se Putin fosse una donna, oggi non farebbe la guerra. Qualche storico gli ha ricordato che la Crimea, l'ultima volta, venne conquistata dall’imperatrice Caterina la Grande.
In economia, forse cercando maggiori consensi nel vasto pubblico, ha promosso politiche di sinistra che non sono affatto piaciute ai conservatori. Sotto il suo governo, specialmente durante il Covid, la spesa pubblica è aumentata fino a costituire il 42,3% del Pil, il deficit è stato in media del 6% del Pil negli ultimi tre anni e il debito puublico ha superato la soglia del 100% del Pil, arrivando al 103,7%. La fiducia nella sua leadership si è ancora più indebolita nel momento in cui ha proposto una nuova finanziaria con ulteriori aumenti di tasse.
Così ha sprecato un patrimonio che si era costruito nel tempo, un misto di alta cultura (Johnson, ex giornalista, è un latinista ed esperto di storia romana) e idee dirompenti portate avanti con tenacia e coraggio. Come constata Heath: “Probabilmente il suo fallimento che lascia più perplessi è quello di non aver compreso lo scopo della Brexit, la scelta politica che lo caratterizzerà per sempre. Invece di adottare un tradizionale programma euroscettico pro-crescita, ha scelto di scimmiottare il modello economico europeo, quello contro il quale abbiamo lottato così duramente per sfuggirvi”.