Schegge di vangelo a cura di don Stefano Bimbi
STAGIONE VENATORIA AL VIA

La caccia cristiana c'è. E avvicina Dio e natura

Alla base delle campagne antivenatorie vi è un amore sbilanciato per gli animali piuttosto che per l’uomo. Come tutte le forme di inversione dell’ordine naturale voluto da Dio, l’animalismo sortisce effetti opposti agli obiettivi che si prefigge e produce danni per lo stesso ambiente. Eppure una caccia cristiana esiste ed è necessaria. Perchè fa scoprire Dio all'uomo attraverso le leggi della natura. 

Creato 03_10_2018

Il recente, tristissimo incidente che pochi giorni fa ha portato alla morte un ragazzo di 19 anni, scambiato da un cacciatore per un cinghiale, ha dato nuovo vigore ai conati animalisti contro l’attività venatoria. Stando ai numeri - spesso gonfiati ad arte - proposti dalle associazioni anticaccia (che inseriscono nelle statistiche anche malori e incidenti che nulla hanno a che vedere con l’atto venatorio) la caccia sembrerebbe essere la più pericolosa delle attività sportive.

La realtà dice altro, basti pensare, ad esempio, al numero dei morti prodotti dall’alpinismo nel 2017: ben 87 rispetto ai 30 dovuti alla caccia. Come mai non nascono mai associazioni contro lo sci, la raccolta funghi (una delle attività col più alto numero di infortuni) il calcio, o il motociclismo sportivo?

Per giunta, se i funghi e le montagne innevate, lasciate a se stesse non fanno male a nessuno, nel 2017 sono stati 10 i morti e 91 i feriti gravi prodotti da incidenti stradali con ungulati che stanno proliferando ovunque con enormi danni alle colture e all’ecosistema.

In realtà, alla base di queste campagne antivenatorie vi è un amore sbilanciato per gli animali piuttosto che per l’uomo. Come tutte le forme di inversione dell’ordine naturale voluto da Dio, l’animalismo sortisce effetti opposti agli obiettivi che si prefigge e produce danni per lo stesso ambiente, come vedremo più avanti.

Innanzitutto facciamo luce su cosa prescrive il Catechismo in merito al rapporto con gli animali. L’art. 2417 riporta: “ Dio ha consegnato gli animali a colui che egli ha creato a sua immagine è dunque legittimo servirsi degli animali per provvedere al nutrimento o per confezionare indumenti. Possono essere addomesticati, perché aiutino l'uomo nei suoi lavori e anche a ricrearsi negli svaghi”.

Il teologo spagnolo don Oscar Maixe ci guida nel merito dell’argomento: “La morale cristiana non è contraria alla caccia, in linea di massima. Appartiene al diritto dell’uomo trovare i mezzi per cibarsi e la Creazione, per volere di Dio, ha l’uomo nella sua cuspide. Da sempre le esigenze alimentari umane sono state viste come necessarie e per questo l’uomo ha cominciato a cacciare. Poi, progredendo, ha inizato l’allevamento degli animali per il consumo umano. Questo comporta tuttavia che l’uomo debba essere rispettoso con il creato. Nella Genesi, Adamo riceve da Dio la missione di “amministrare” il creato, non di esercitarvi un dominio assoluto. Questo è molto importante. Può l’uomo continuare a cacciare per sport anche se le sue necessità alimentari sono attualmente già coperte dall’allevamento? La risposta è sì poiché non si vedono ragioni di immoralità. Del resto, la pesca viene praticata da moltissime persone anche se l’industria ittica provvede al bisogno collettivo. Ciò che è immorale è cacciare solo per il gusto di ammazzare gli animali: per questo esiste un codice etico fra i cacciatori.

Oggi la cultura animalista propone la parità uomo-animale. Questo può produrre diverse incoerenze. Per esempio, ci sono persone che difendono i cuccioli di foca, ma poi sono a favore dell’aborto: un controsenso logico. Perché difendono i piccoli degli animali e non i piccoli degli umani? Gli animalisti dimenticano anche che nella natura sono gli stessi animali ad essere feroci con gli altri animali. Non esiste una parità tra l’uomo e l’animale, ma quando l’uomo maltratta gli animali diventa indegno perche cede a brutali istinti che lo fanno assomigliare a una belva feroce, come una faina che in un pollaio fa inutile strage di pollame. Infine questa è la regola d’oro: l’essere umano tratti il creato con rispetto, quando cresce un figlio, quando alleva animali, e anche quando caccia”.

I cortocircuiti logico-razionali della mentalità animalista emergono poi in modo palese quando salvare a tutti i costi alcuni animali comporta la morte di altre bestie.

Un esempio? Quello delle berte minori, uccelli marini molto minacciati, che si riproducono sull’Isola di Montecristo. Fino al 2010, la loro popolazione era messa a rischio dai ratti che ne divoravano pulli e uova. Un progetto di derattizzazione è stato fortemente criticato da gruppi animalisti, ma grazie ad un progetto finanziato dall’Unione Europea (LIFE) è stato possibile eliminare i ratti dall’isola salvando centinaia di giovani uccelli. Danni simili sono causati dalla nutria, anch’esso animale ‘straniero’, che, oltre a gravi danni agli argini e alla vegetazione, mangia i piccoli degli uccelli acquatici.

Anche ungulati come il cinghiale creano impatti devastanti: non è solo un competitore alimentare, ma è anche un insaziabile predatore. Come una vera ruspa, ara il soprassuolo alla ricerca di tuberi e radici, impedendo la rigenerazione del bosco. Soprattutto, mangia tutti gli animali più piccoli: roditori, rettili, tartarughe, bisce, uccellini e uova, leprotti, perfino cuccioli di capriolo.

Le contraddizioni dell’animalismo hanno condotto un nutrizionista americano, Tovar Cerulli, a un drastico mutamento di prospettiva. Nel suo libro “The mindful carnivore – il carnivoro consapevole” – spiega come a vent’anni fosse divenuto vegetariano e, poco dopo, vegano.  Visto il peggioramento della sua salute, e consapevolizzatosi su cosa sia veramente l’impatto dell’uomo sulla natura, ha poi imbracciato la doppietta.

“Osservando i cacciatori aggirarsi per le foreste – racconta Cerulli - ero solito scuotere la testa. Come vegano che aborriva la violenza e la sofferenza, mi meravigliavo pensando a cosa potesse motivare tali persone. Quasi dieci anni dopo, capii che tutto il cibo ha il suo costo. L’agricoltura comporta la distruzione dell’habitat e la produzione di cerali è ben lontana dall’innocenza.

Cominciai a vedere che la questione non era su ciò che noi mangiamo, ma come questo cibo viene nel nostro piatto. La mia salute migliorò quando cominciammo a mangiare latticini e uova. Migliorò ancor più quando cominciammo a mangiare pollo e pesce. Cercando un modo etico, ecologico e responsabile per venire a patti con il mio cibo, cominciai a contemplare l’inconcepibile: cacciare. Due anni più tardi comprai un fucile per la caccia al cervo. Il mio cambiamento di opinione verso la caccia fu un’inaspettata estensione della mia stessa ricerca verso il rispetto per la natura. In realtà gli incidenti di caccia e le altre cose criticabili del mondo venatorio fanno parte di quel lato oscuro che esiste in tutte le attività umane, dal guidare ubriachi, al costruire dissennatamente fabbriche e impianti industriali, fino alle pratiche agricole che causano erosione del terreno e la morte di milioni di uccelli con i loro veleni. Tuttavia il comportamento non responsabile del cacciatore è quello che catalizza maggiormente la disapprovazione pubblica, questo perché siamo tutti disturbati dalla morte dell’animale”.

Infine, va ricordato che dal punto di vista alimentare la selvaggina è in effetti la carne più sana che ci sia, dato che l’animale è cresciuto libero in natura, padrone di cibarsi in armonia col suo istinto, senza essere sottoposto a ingrassamento o a crescita forzata. Non a caso, in Francia, la carne degli ungulati uccisi dai cacciatori viene servita negli ospedali e negli ospizi per malati.

«Il senso e il significato della caccia li capiamo solamente se comprendiamo la natura dell'animale e quella dell'uomo. Capire il senso della caccia presuppone che si capisca l'essere umano».  Sono parole del filosofo spagnolo José Ortega y Gasset (Madrid, 1883 - 1955), contenute nel piccolo  libro intitolato «Discorso sulla caccia».

Ortega spiega come l’uomo grazie alla caccia abbia imparato a limitare il potere distruttivo di cui dispone, rinunciando a esercitare tutta la sua supremazia sull'animale. Invece di fare tutto ciò che è in suo potere per uccidere l'animale, imbriglia le sue enormi possibilità e volontariamente si mette ad imitare la Natura. Regredisce volontariamente per rientrare lealmente in essa.

«Il senso della caccia sportiva - scrive Ortega - non è di elevare la bestia fino all'uomo, ma qualcosa di molto più spirituale; una cosciente e quasi religiosa umiliazione dell'uomo, che frena la propria strapotenza e s'abbassa fino all'animale».

Nell'atto venatorio, l'uomo celebra il culto di quello che c'è di divino, di trascendente, nelle leggi della Natura e per questo la caccia assume il rango di un'occupazione veramente «seria». Fatica, impegno, strategia, calcolo razionale eppure anche istinto, intuizione: la caccia si appaia alla regola monastica e alla disciplina militare soprattutto per la ferrea morale che la governa.

Essendo una metafora della vita e della conoscenza, è inevitabilmente anche simbolo della ricerca e del metodo filosofico. Lo stesso S. Tommaso d'Aquino parlava del filosofo come venator, cacciatore, sempre all'erta per cogliere, con sguardo infallibile, una verità sull'uomo che passa come una rara preda.

Quindi, ben vengano tutti i provvedimenti utili a sanzionare i cacciatori indisciplinati, a consapevolizzarli e a renderli sempre più partecipi dell’ecosistema come regolatori della fauna selvatica e veri “giardinieri” di quel mondo naturale che l’uomo è chiamato ad amministrare.

A fronte di tali riflessioni, una “caccia cristiana” praticata con etica ferrea e totale rispetto delle regole, non solo è lecita, ma è addirittura auspicabile