La Bosnia alla vigilia della visita di Francesco
Un vetro frantumato e rincollato, le cui crepe non solo sono ancora visibili, ma permettono l'insinuarsi di spifferi odiosi. È questa la Bosnia che attende Papa Francesco. Sono "spifferi" forti, come quello del fondamentalismo islamico e degli odi lasciati dal lungo conflitto civile. Ma i segni della pace auspicata dal Papa iniziano a farsi vedere.
Un vetro frantumato e rincollato, le cui crepe non solo sono ancora visibili, ma permettono l'insinuarsi di spifferi odiosi, vecchi e nuovi. È questa la Bosnia che attende Papa Francesco, che il 6 giugno sarà a Sarajevo per portare un messaggio di pace e “per esprimere a tutti – a tutti!-” la sua stima e la sua amicizia. Il Santo Padre, nel video messaggio che precede la sua partenza, ha sentito la necessità di sottolineare che questo Viaggio Apostolico non riguarda solo la comunità cattolica del Paese, ma è per tutti, al di là delle differenze etniche e religiose.
Infatti, le conseguenze della guerra che ha sconvolto l'ex Jugoslavia negli anni '90 “sono ancora molto vive”, come affermato da monsignor Tomo Vuksic, ordinario militare, “perchè c'è molta gente che ha perso i figli, i mariti, i familiari, che ha vissuto l'esperienza della distruzione di beni costruiti in una vita”, quindi “molte sono le ferite ancora da curare”.
La doppia composizione della Bosnia Erzegovina, divisa in due entità (la Federazione croato-musulmana e la Repubblica Serba) dagli Accordi di Dayton del '95, fatica a ricucire gli strappi di una convivenza che storicamente, nella Jugoslavia di Tito, si è dimostrata possibile. Fatica perchè nella maggior parte dei casi bambini e i giovani seguono percorsi scolastici e universitari diversi, perchè ogni etnia elegge i propri rappresentanti, perchè la presidenza è esercitata a turno da croati, musulmani e serbi e perchè ci sono molte persone che non hanno rappresentanza politica, in quanto non appartengono a nessuna delle tre comunità costituzionalmente riconosciute (tra questi, ad esempio, 100mila rom). Fatica perchè la tripartizione etnica voluta dagli accordi di Dayton in base a un censimento del 1991, potrebbe non rispecchiare più la composizione del Paese. Fatica perchè la crisi economica e la disoccupazione tolgono la speranza di un futuro migliore alle nuove generazioni.
Sono tutti questi elementi, uniti alla presenza di comunità musulmane wahabite (ultraconservatrici) e alla consistente permanenza di armi nelle mani di membri della società civile, a rendere il Paese terreno fertile per il diffondersi del fondamentalismo islamico, estraneo alla tradizione musulmana bosniaca prima della guerra. In quegli anni, infatti, molti mujahidin (combattenti islamici impegnati nel jihad) sono accorsi da paesi come l'Afghanistan, l'Arabia Saudita e la Cecenia per soccorrere i loro fratelli musulmani, hanno ricevuto in cambio la cittadinanza bosniaca e poi sono rimasti. Gojko Vasic, direttore della polizia della Repubblica Serba, ci mostra la lista degli ex-mujhaidin ancora residenti in Bosnia e ci spiega che in quell'elenco stanno le radici della diffusione del jihadismo nel Paese (secondo stime al ribasso di Sarajevo, sarebbero almeno 3000 i fondamentalisti). Le cellule terroristiche wahabite sono, a sua detta, impossibili da controllare perchè ci sono troppe difficoltà di coordinamento tra il Ministero dell'Interno serbo e quello bosniaco. “Basti pensare che spesso membri del Governo bosniaco intralciano le nostre indagini, o addirittura pagano gli avvocati per difendere potenziali terroristi, affermando che approfittiamo di incidenti per portare avanti una nuova forma di pulizia etnica”.
Il direttore della polizia serba si riferisce alle polemiche sorte in seguito all'operazione Ruben, lanciata dalle forze di sicurezza di Banja Luka (capitale della Repubblica Serba) dopo all'attentato di Zvornik del 28 aprile, in cui hanno perso la vita l'attentatore e un poliziotto. Le perquisizioni avvenute in 32 località del territorio sotto il controllo serbo hanno portato alla luce armi, munizioni e materiale di propaganda riconducibili a cellule del terrorismo islamico. Sono seguite polemiche della comunità bosniaca (musulmani di Bosnia) e di Bakir Izetbegovic, membro della Presidenza della Bosnia Erzegovina, che sta pagando gli avvocati a coloro che sono stati accusati di terrorismo.
“Al di là delle polemiche, dopo Zvornik e prima dell'arrivo del Papa e della partita tra Bosnia Erzegovina e Israele che si terrà il 12 giugno, l'allerta dei Governi e delle forze di polizia è alta, e la sicurezza verrà garantita”, assicura Predrag Ceranic, professore dell'università di Banja Luka esperto di sicurezza ed ex-capo dei servizi di intelligence serbi. “A tutti interessa che il Viaggio Apostolico si svolga senza intoppi, perché anche da questo dipende l'immagine che la comunità internazionale ha del nostro Paese”. Il professore sembra voler sottolineare che, nonostante le tensioni e i reciproci sospetti, le due entità sono in grado di collaborare efficientemente quando necessario.
È vero che la Bosnia Erzegovina è ancora un Paese diviso, ma è vero anche che i segni della riconciliazione e della pace che il Santo Padre auspica cominciano a farsi sentire. Il 1 giugno è ufficialmente entrato in vigore l'Accordo di stabilizzazione e associazione dell'Unione Europea con la Bosnia Erzegovina: le autorità bosniache si impegnano ad allinearsi gradualmente alle norme europee, preparandosi così al futuro ingresso nell'Ue. Un futuro condiviso, in modo tale che, come auspicato dal segretario di Stato Vaticano Pietro Parolin, “tutti si sentano a pieno titolo cittadini, con la loro identità specifica, indipendentemente dal numero”.