Jihadiste in rosa, da un inferno all'altro grazie all'Isis
L’attentato suicida di Tunisi è l'evoluzione del ruolo femminile delle donne del jihad, che hanno iniziato la loro "carriera" svolgendo il compito di mogli e schiave del sesso, per poi diventare le spietate poliziotte delle Brigate Al Khansaa. L’andamento negativo del conflitto le ha poi “elevate” al rango di attentatrici.
L’attentato suicida compiuto ieri da una donna kamikaze a Tunisi è la dimostrazione di come lo stereotipo del terrorista in abiti maschili abbia ormai lasciato il passo a una realtà che vede le donne guadagnare sempre più spazio e rilevanza nel mondo dell’estremismo contemporaneo. Tale evoluzione del ruolo femminile prende le mosse dal jihad siriano-iracheno, cavalcato da ISIS e da gruppi affiliati ad Al Qaeda e alla Fratellanza Musulmana, che ha mobilitato non solo uomini pronti a combattere e a morire per la realizzazione di un’utopia negativa, come era solito chiamarla Khaled Fouad Allam: da Nord Africa, Medio Oriente ed Occidente, sono state migliaia le donne che hanno lasciato il proprio paese per popolare i nuovi territori conquistati dal jihad e prendere parte attiva alla costruzione dello stato perfetto sulla terra. Un vero e proprio inferno, in realtà, come hanno testimoniato quante sono riuscite a “disertare” dopo aver sperimentato in prima persona il grande inganno del sedicente Stato Islamico.
Reclutate per lo più su internet, social networks, e canali di messaggistica privata, solitamente da donne già radicalizzate, in Siria e Iraq le donne del jihad hanno iniziato la loro carriera svolgendo il compito di mogli, madri, schiave del sesso, per poi diventare le spietate poliziotte delle Brigate Al Khansaa, incaricate di vigilare sui comportamenti e sui costumi della stessa popolazione femminile. Le Brigate Al Khansaa avevano infatti lo scopo istituzionale di educare le donne dal punto di vista religioso e punirle se non rispettavano la legge “divina”. Attive dal 2014 al 2017 tra Raqqa, Mosul, Ninive e Samarra, si avvalevano sia di personale locale che di donne provenienti da Gran Bretagna (la maggioranza), Stati Uniti, Paesi Bassi e Cecenia, superando gli 800 membri nel 2015.
La polizia femminile, armata di frusta e strumenti di tortura come il cosiddetto “biter”, simile a una tagliola, infliggeva pesanti punizioni corporali che venivano eseguite tanto in prigione quanto per strada, davanti ad altre donne, bambini e passanti, a miglior memoria e monito per tutti. Per subire simili trattamenti, che potevano condurre anche alla morte, bastava indossare un velo troppo trasparente per i canoni jihadisti, sollevarlo leggermente o allattare il proprio bambino in un luogo pubblico. Mostrare gli occhi o parti del volto era proibito perché “inducono in tentazione, specie quando si usa il trucco", precisava una fatwa in vigore nello Stato Islamico. Pertanto, tutte le donne di età inferiore ai 45 anni, incluse bambine molto piccole, erano tenute a indossare la veste nera, l’abayas, il niqab, e i guanti neri.
Le Brigate Al Khansaa si occupavano inoltre di “promuovere” i matrimoni precoci di bambine e adolescenti. In un manifesto divulgato a Raqqa nel 2015, si affermava la legittimità di matrimoni contratti a soli 9 anni di età, sebbene si precisasse che l’età giusta nella quale sposarsi per la maggioranza delle “ragazze pure” fosse di 16 o17 anni. Rifiutare di contrarre matrimonio con un jihadista dell’ISIS poteva costare la vita sia alle ragazze che ai loro famigliari, come accaduto a Mosul a circa 250 persone. I matrimoni potevano anche essere fittizi, ovvero a breve termine, come soluzione per mascherare il sesso extraconiugale e lo stupro. Resoconti di prima mano indicano che la vita coniugale era caratterizzata sistematicamente da violenze, abusi e maltrattamenti. Eppure, la prospettiva di una vita matrimoniale rispettosa dei canoni religiosi era una delle esche più utilizzate per attrarre le donne musulmane nel territorio dello Stato Islamico (80 di queste, vedove di militanti dell’ISIS e attualmente detenute dalle forze curde nel nord della Siria, stanno per far ritorno in Gran Bretagna insieme ai loro bambini).
L’andamento negativo del conflitto ha poi “elevato” le donne al rango di attentatrici suicide. A Mosul, circa il 40% degli attacchi suicidi è stato infatti compiuto da donne, spesso in compagnia di minori. Sottoposte a un addestramento simile a quello riservato agli uomini, le prescelte erano le ragazze più giovani, per garantire il livello necessario di operatività, e di provenienza occidentale in modo da sfruttarne il “martirio” nelle campagne di reclutamento in Europa.
Le pratiche adottate dall’ISIS in Siria e Iraq sono state emulate dai “satelliti” dell’organizzazione terroristica ovunque siano riusciti a imporre il proprio controllo su un territorio e sulla popolazione residente, come in Libia. Nell’ex avamposto di Sirte, l’ISIS ha imposto restrizioni sull’abbigliamento a bambine di 10-11 anni. Se una donna o una ragazza disobbediva al codice di abbigliamento, uno dei loro parenti maschi poteva essere multato e frustrato all’istante. Il timore di subire tali violenze aveva spinto le madri a coprire anche le bambine di appena otto anni, mentre i padri sono stati spesso obbligati a far sposare le loro figlie con i militanti. A Sirte, inoltre, l’ISIS ha catturato, ridotto in schiavitù, torturato e abusato di rifugiati, donne e ragazze migranti che cercavano di raggiungere l'Europa attraverso la Libia.
Le perdite territoriali subite dall’ISIS in Siria, Iraq e nella stessa Libia non ne hanno intaccato la capacità attrattiva a livello ideologico. L’organizzazione continua la ricerca, l’indottrinamento e il reclutamento di nuovi adepti e adepte, e come ha dimostrato l’attentato di ieri in Tunisia saranno le donne la nuova punta di lancia del jihadismo. L’Occidente resta un bacino di reclutamento femminile privilegiato per ISIS, Al Qaeda e i Fratelli Musulmani, ed è pertanto necessario che le strategie di contrasto alla radicalizzazione e al terrorismo siano integrate da politiche che riguardino specificamente le donne e che contemplino gli aspetti sociali, culturali e psicologici del fenomeno. Che l’attentato di Tunisi non sia un campanello d’allarme suonato a vuoto per l’Italia e per l’Europa.