Jihad virtuale, mai rinunciare alla libertà del Web
E’ notizia recentissima quella della chiusura, dal 2015 a oggi, di ben 125.000 account Twitter riconducibili ad attivisti Isis per propaganda e reclutamento. Si deve investire in sicurezza informatica, ma mai rinunciare alla libertà dell'utente. E' la tesi di Antonello Soro, presidente dell'Autorità Garante dei dati personali.
All’indomani dei tragici fatti di Bruxelles è tornato prepotentemente alla ribalta il tema della Rete con tutte le sue implicazioni. Nell’ambiente virtuale si realizza la nostra cittadinanza digitale ma si commettono anche tanti reati e, soprattutto, si organizzano anche attacchi terroristici di portata devastante.
Non ci sono più dubbi sul fatto che l’arruolamento delle nuove leve del jihaidismo avvenga anche attraverso internet e che gli estremisti del terrore utilizzino anche le tecnologie dell’infosfera per condividere piani di attacco e informazioni preziose sui bersagli da colpire.
I social network diventano un altro habitat naturale per gli islamici più violenti che reclutano proseliti e attivano profili finalizzati ad attirare soggetti potenzialmente interessati a combattere per affermare il dominio del Califfato.
E’ notizia recentissima quella della chiusura, dal 2015 a oggi, di ben 125.000 account Twitter riconducibili ad attivisti Isis che utilizzano quel social per diffondere messaggi propagandistici e per incitare al terrorismo, minacciando attacchi. Lo Stato islamico, iscrivendosi a Twitter e servendosi di numerosi account, ha dato luogo ad un meccanismo perverso di propaganda e mobilitazione. Il fatto che questo social, così importante, abbia deciso di impegnarsi nel cercare e chiudere questi account, è dovuto anche alle numerose pressioni arrivategli dai paesi occidentali, Usa in primis. Pare che Obama abbia di recente incontrato i vertici delle principali aziende della Silicon Valley e i big di internet proprio per sollecitare adeguate strategie di contrasto all’utilizzo della Rete per la propaganda terroristica.
D’altronde, già all’epoca di Bin Laden il web ha consentito ai terroristi di strutturare un network orizzontale e decentralizzato e di ramificarsi in ogni angolo del mondo, veicolando e monitorando attraverso la rete i piani di attacco e allestendo in rete una sorta di campo di addestramento virtuale. Forum, blog e social network sono snodi chiave all’interno dell’infrastruttura jihadista on line. A far sì che i terroristi possano utilizzare internet come un’arma diabolica sono la crittografia, che occulta il contenuto del messaggio, e la steganografia, che ne nasconde addirittura l’esistenza e che consente alle informazioni di natura terroristica di mimetizzarsi in rete e di viaggiare in tutte le direzioni.
La sfida che gli Stati europei dovrebbero raccogliere in modo corale e sinergico è quella di massicci investimenti in innovazione tecnologica e sicurezza informatica, battendo i terroristi su quel terreno. La risposta che invece si sta dando è quella della paura, del cambiamento di abitudini, della rinuncia a spicchi di libertà costituzionamente garantite, della soppressione di porzioni consistenti di privacy.
Ne parla in un interessante volume appena pubblicato da “Codice edizioni” Antonello Soro, Presidente dell’Autorità Garante per la protezione dei dati personali. In Liberi e connessi (pp.188), l’ex deputato smonta il luogo comune che dovrebbe indurci a rinunciare a un po’ della nostra privacy in cambio di una maggiore sicurezza.
Se accettassimo di essere perquisiti sistematicamente, di vedere invase le nostre vite, anche quelle digitali, secondo alcuni daremmo a forze dell’ordine, servizi di intelligence e altre strutture di monitoraggio l’opportunità di vigilare maggiormente sui rischi terroristici. Ma siamo proprio sicuri che sicurezza e privacy siano così incompatibili?
Soro non ci sta e ricorda che ogni diritto garantito dalla Costituzione e dalle leggi vigenti deve bilanciarsi con altri diritti ugualmente meritevoli di tutela e che la sfida più difficile è proprio quella di ridurre il coefficiente di rischio senza un’eccessiva limitazione delle essenziali garanzie democratiche.
La risposta alla sfida del terrore, si legge nel volume del Presidente dell’Autorità garante della privacy, non può che essere globale e andare al di là degli steccati nazionali. L’autore si chiede se possiamo dirci ancora liberi nella società digitale, considerate le forme di controllo sottili, pervasive e capaci di annullare ogni possibilità per l’individuo di costruirsi liberamente. "Le nuove tecnologie –scrive Soro- pur offrendoci straordinarie potenzialità, rischiano di imporci nuove schiavitù se non riusciamo a proteggere, con i nostri dati, noi stessi e la nostra libertà. Dobbiamo coltivare l’ambizione di essere partecipi della piazza globale e, insieme, orgogliosi difensori dei nostri diritti. Della privacy in primo luogo, che è il nuovo nome della libertà".