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MEDIO ORIENTE

Israele si incendia, ma i riflettori si spengono

La Terza Intifada scoppiata a Gerusalemme è la prima che avviene a riflettori praticamente spenti. Poca attenzione mediatica, scarsa attività della diplomazia, nessuna dichiarazione dalla Casa Bianca. Il Medio Oriente è impegnato in ben altre crisi e quella fra Israele e Palestina interessa a pochi. Se non all'Isis...

Esteri 14_10_2015
Intifada palestinese

C'è voluta la giornata tragica di ieri - con ben tre israeliani uccisi e venti feriti, in cinque attacchi diversi tra cui uno con spari contro un autobus - per far parlare il Dipartimento di Stato americano (nemmeno la Casa Bianca). Per esprimere «la più ferma condanna» degli attacchi terroristici contro i civili israeliani; accompagnata, però, dalla precisazione che l'amministrazione americana «piange ogni perdita di vita innocente, israeliana o palestinese». Praticamente il minimo sindacale. 

Anche dall'altra parte, però - quella delle cancellerie arabe, solitamente (a parole) così pronte a esprimere «solidarietà al popolo palestinese» - i riflessi stavolta sono sorprendentemente lenti. Sarà che in questo momento sono in tutt'altre faccende affaccendate, sarà che nel guazzabuglio tra Gaza e Ramallah è ormai oggettivamente difficile trovare un cavallo su cui puntare, sta di fatto che anche nelle stanze dei bottoni a Riyad, a Doha, al Cairo e persino a Teheran di quanto sta accadendo a Gerusalemme nessuno sembra avere una gran voglia di parlare. 

È l'elemento veramente nuovo dell'intifada 2015: siamo davanti alla prima ondata di violenza che avviene in Israele e in Palestina con i riflettori del mondo spenti. È dall'inizio delle festività del capodanno ebraico - a metà settembre - che la tensione è fortissima a Gerusalemme. Ci sono stati due stragi di cittadini israeliani particolarmente efferate e da giorni si susseguono gli assalti all'arma bianca nel centro della Città Santa e nelle altre grandi città israeliane. Da parte palestinese i dati diffusi dalla Mezzaluna Rossa parlavano ieri di 30 morti e 3730 feriti dall'inizio di ottobre negli scontri con l'esercito israeliano. Numeri che in qualsiasi altro momento avrebbero dato la stura a dimostrazioni di piazza in tutto il mondo arabo. E invece non sta succedendo proprio nulla.

Le ragioni di tutto questo non sono così difficili da comprendere: le crisi aperte in Medio Oriente sono tante. E nessuno oggi ha voglia di aggiungerci quella di Gerusalemme, il posto dove chiunque abbia provato a spendere la propria credibilità in improbabili negoziati di pace è uscito con le ossa rotte. In più c'è il gelo tra Obama e Netanyahu, con il premier israeliano che dopo aver perso la battaglia sull'accordo sul nucleare iraniano aveva praticamente messo in pausa la linea con Washington, in attesa del nuovo inquilino della Casa Bianca. Cosa che a Barack Obama non aveva creato grandi dispiaceri. Ma c'è anche il tourbillon delle alleanze tra i Paesi arabi che coinvolgono di riflesso le stesse fazioni palestinesi. Con Hamas uscita fortemente indebolita dalle primavere arabe e Abu Mazen scaricato praticamente da tutti.

Così, per la prima volta dai tempi delle guerre arabe per la distruzione di Israele, almeno per il momento quanto sta succedendo a Gerusalemme è derubricato a una questione interna. In teoria verrebbe da pensare che si tratti di un fattore positivo, destinato a contenere l'estendersi delle violenze. Non è un mistero, infatti, che dietro agli attentati suicidi della seconda intifada ci fosse una logistica con sponsor politici influenti e disposti a finanziare quel tipo di terrore dal di fuori della Palestina. 

Il volto che sta prendendo questa intifada, però, porta a essere molto meno ottimisti. Perché quando la violenza ha il volto di un ragazzino armato di un coltello o di un auto che si scaglia contro persone in attesa a una fermata dell'autobus, diventa qualcosa di molto più difficile non solo da prevenire, ma anche da decifrare. Diventa un'intifada che assomiglia più alla prima che alla seconda, meno eterodiretta e allo stesso tempo potenzialmente più lunga. Magari anche con periodi di quiete apparente, per poi riesplodere all'improvviso in nuove fiammate intense di violenza. Se la molla non è un'organizzazione politico-militare ma un semplice odio diffuso, diventa impossibile anche per un sistema di sicurezza efficiente come quello israeliano fermare l'intifada. E non a caso è proprio a questo tipo di incubo che faceva riferimento da mesi l'establishment militare israeliano quando rimproverava a Netanyahu la mancanza di iniziativa politica nei confronti dei palestinesi.

C'è, però, un ulteriore elemento di preoccupazione da tenere presente: là dove c'è un vuoto politico bisogna sempre chiedersi se non ci sia anche qualcuno pronto a sfruttarlo per i propri interessi. E allora viene da chiedersi anche: un'intifada che oggi è una rivolta di ragazzini, con un legame molto debole con le fazioni palestinesi tradizionali, non è il target ideale per formazioni come al Qaeda e lo Stato islamico? E non sarebbe Gerusalemme un palcoscenico straordinariamente appetibile per movimenti jihadisti che fanno della simbologia uno dei loro punti di forza? 

Le diplomazie di tutto il mondo farebbero meglio a guardare con un po' più di attenzione a quanto sta succedendo a Gerusalemme. Prima di doversene occupare di corsa, quando potrebbe essere troppo tardi.