Israele manda in onda sui media stranieri le divisioni interne sull’Iran
Dall’articolo sul magazine del New York Times ai leak e le fonti anonime: perché tutti discutono dell’attacco ai siti nucleari
La leadership israeliana è diventata chiacchierona, non fa che raccontare – rigorosamente sui media internazionali, in inglese, così tutti possiamo leggere e capire – le divisioni interne tra governo, esercito e intelligence, sulla questione iraniana. Il regime di Teheran si sta dotando della bomba atomica (secondo il direttore del National Intelligence americano, James Clapper, sta addirittura preparando un attacco sul territorio americano): che cosa facciamo per impedirlo? Bombardiamo i siti dove si sviluppano le centrifughe, facciamo azioni di sabotaggio, lasciamo che sia la comunità internazionale a occuparsene (questa ipotesi è sempre riportata per pura questione di forma: la sopravvivenza di Israele non può essere delegata)? Ognuno la pensa a modo suo, e questo è normale, quel che è strano invece è che ognuno cerca di far sapere la sua posizione – gli esperti fanno fatica a stare dietro a tante dichiarazioni contradditorie – pure se logica vuole il contrario: se vuoi essere efficace, in un blitz militare, conviene giocare sull’effetto sorpresa.
Ronen Bergman, firma di punta del quotidiano israeliano Yedioth Ahronoth, esperto di intelligence, ha scritto l’articolo di copertina sull’ultimo numero del magazine del New York Times in cui raccoglieva soprattutto il punto di vista del governo, con lunghe chiacchierate con il ministro della Difesa, Ehud Barak, alleato del premier, Benjamin Netanyahu, e sostenitore di un blitz contro i siti nucleari. L’esito di questa chiacchierata, e del racconto, è: ci può essere un attacco già nel 2012. L’articolo è stato anticipato la settimana scorsa, e il giorno dopo, puntuale sul New York Times, c’erano anonime fonti dell’intelligence israeliana che sostenevano: l’Iran sta bluffando, la minaccia di ritorsione in caso di attacco non è così pericolosa. Nelle stesse ore, il ministro delle Finanze di Gerusalemme, Yuval Steinitz, chiedeva, intervistato da Bloomberg Businessweek, di imporre un blocco aereo e navale totale sull’Iran. In tre giorni erano emerse sui media internazionali almeno una decina di posizioni diverse, mentre l’ufficio della comunicazione di Netanyahu litigava con il direttore del Jerusalem Post, Steve Linde, che aveva sentito, in un incontro privato, il premier dichiarare: “I nemici principali di Israele sono Haaretz e il New York Times”.
Indiscrezioni, dichiarazioni, fonti anonime. Ogni giorno si parla di un eventuale blitz contro Teheran, mentre altri articoli – l’ultimo, il più accurato, sul Time – spiegano che un intervento militare oggi è tecnicamente impossibile. Laura Rozen, nota commentatrice di questioni mediorientali tenutaria del blog The Envoy, ha posto a Bergman la fatidica domanda: perché sono così “chatty” i leader israeliani? Il giornalista spiega che, secondo molti, lui stesso è stato “usato” per inviare messaggi alla Casa Bianca, ma Rozen ribatte che non ce n’era bisogno: il ministro della Difesa, Leon Panetta, chiede ormai su base giornaliera a Gerusalemme di non fare mosse avventate, soprattutto di non farlo senza avvertire l’America. Bergman è convinto che quel che i leader israeliani dicono – a partire dall’ex capo del Mossad Meir Dagan, che è contro lo strike, così come l’attuale capo del Mossad, Tamir Pardo, che considera la minaccia iraniana “non esistenziale” – “per la maggior parte non è detto per le orecchie israeliane”. Bergman cita un detto in ebraico che più o meno vuol dire “tienimi, così non lo colpisco”, e spiega che è come se gli israeliani volessero dire alla comunità internazionale di tenere a bada la questione nucleare, altrimenti poi Israele sarà costretto a prendere l’iniziativa. Il destinatario principale del messaggio è il presidente americano, Barack Obama, che è in corsa per la rielezione: secondo Bergman, molti dell’intelligence e dell’esercito israeliano dicono di aspettare il voto di novembre per poi discutere con la Casa Bianca dell’intervento militare, “è stato Obama a dire di non voler convivere con un Iran atomico”. Secondo altri, continua Bergman, “non si deve sottovalutare l’audacia di Obama, che ha già dimostrato di essere coraggioso con l’uccisione di Bin Laden, nonostante alcuni suoi collaboratori fossero contrari”.
La risposta al perché delle tante dichiarazioni non c’è. Ma non si parla d’altro nei consessi che si occupano di politica estera. I realisti dicono di far avanzare l’armata diplomatica piuttosto che insistere con i bombardamenti, mentre domenica Amir Oren su Haaretz raccontava che in tutto il gran parlare ancora non si capisce che cosa voglia fare Netanyahu. La “fog of war” non è casuale, ma nel chiacchiereccio potrebbe essere più difficile evitarla, la guerra.
Da Il Foglio dell'1 febbraio 2012