Isis, massacro a Sirte. L'Europa resta a guardare
"Vi schiacceremo come maiali". E l'Isis, a Sirte, sulla costa del Mediterraneo della Libia, compie un immane massacro di civili e prigionieri sotto i nostri occhi. La reazione europea e statunitense è un comunicato di condanna. Prima di ogni intervento si cerca un accordo di riconciliazione fra il governo di Tobruk e gli islamisti di Tripoli. Con Gheddafi gli stessi governi non avevano agito con così tanta calma.
Libia, che l’Isis sia alle porte lo avevamo capito dallo scorso mese di maggio, quando le locali milizie che hanno deciso di legarsi alle sorti del Califfato hanno occupato Sirte, la città che diede i natali all’ex dittatore Muhammar Gheddafi. Era evidente fin dal febbraio precedente, quando il movimento terrorista aveva diffuso il video della decapitazione dei 21 copti, martiri, egiziani. E all’inizio di quest’anno era sempre l’Isis che aveva rivendicato la bomba all’hotel Corinthia di Tripoli. Le notizie del massacro di Sirte, ancora in corso, non sono una novità. Sorprende, piuttosto, la completa assenza di reazioni da parte italiana ed europea con un nemico così pericoloso e attivo alle porte e con un’emergenza umanitaria così vicina alle nostre coste.
“Vi schiacceremo come maiali” ha promesso l’Isis, in uno dei suoi video di propaganda, prima di sferrare la sua controffensiva a Sirte. Già in possesso della città sin da maggio, questa estate l’esercito jihadista ha dovuto far fronte alla rivolta della popolazione locale e alla controffensiva delle milizie legate ad Alba di Libia, la coalizione (anch’essa islamista) arrivata al potere a Tripoli. La città è stata in parte perduta dagli jihadisti, che hanno reagito con estrema violenza. In meno di una settimana di combattimenti, almeno 200 civili sono stati uccisi. Il 15 agosto, il governo in esilio a Tobruk, l’unico internazionalmente riconosciuto in Libia, ha dato la notizia della cattura, decapitazione e crocifissione di 12 combattenti ad opera degli jihadisti. Nello stesso giorno si è diffusa la notizia di un altro vile massacro: almeno 22 pazienti dell’ospedale di Sirte sono stati trucidati dagli uomini dell’Isis, che poi hanno dato alle fiamme tutto l’edificio. Le strutture sanitarie, per altro, sono al collasso, come denuncia Foad Aodi, presidente dell’Amsi (Associazione Medici Stranieri in Italia). I medici rimasti sul posto chiedono all’Italia l’apertura di un corridoio umanitario per evacuare i feriti, che sono almeno 500 stando alle fonti locali.
Da parte dei paesi occidentali, le tre potenze democratiche dell’Onu (Usa, Gran Bretagna, Francia), più la Germania e i due maggiori paesi rivieraschi del Mediterraneo (Spagna e Italia), giunge un comunicato congiunto, in cui si esprime la ferma condanna del massacro di Sirte. Ma nessun piano di azione. Il comunicato recita: “Siamo profondamente preoccupati dalle notizie che parlano di bombardamenti indiscriminati su quartieri della città densamente popolati e atti di violenza commessi al fine di terrorizzare gli abitanti. Facciamo appello a tutte le fazioni libiche che desiderano un Paese unificato e in pace affinché uniscano le proprie forze per combattere la minaccia posta da gruppi terroristici transnazionali che sfruttano la Libia per i loro scopi”. La soluzione al problema è “politica” e “non militare”. L’Italia, dal canto suo, continua a lavorare su un piano di stabilizzazione per la Libia: aiuti finanziari e militari per l’esercito nazionale libico, presidio dei punti strategici da parte dei caschi blu, eventuali raid aerei. Ma c’è una precondizione necessaria e difficile da raggiungere: un accordo di unità nazionale fra il governo di Tobruk e gli islamisti di Alba di Libia. Su questo sta lavorando, da mesi, l’inviato dell’Onu Bernardino Leon, con grande tenacia, ma, almeno finora, senza alcun risultato concreto. Niente intervento senza un governo di unità nazionale, insomma.
Se paragoniamo la situazione attuale a quella del 2011, questa scelta strategica appare veramente paradossale. Quattro anni fa, infatti, c’era un solo governo riconosciuto, Giamahiria Araba di Libia del colonnello Gheddafi. Allo scoppio della guerra civile si è formato un governo rivoluzionario a Bengasi. Dopo la condanna a Gheddafi da parte di Onu e Lega Araba, la comunità internazionale ha trasferito il riconoscimento al governo di Bengasi ed entro un mese ha stabilito la No Fly Zone, per evitare un massacro a Bengasi. La No Fly Zone ha poi funzionato come copertura per una (mai dichiarata) operazione di regime change, conclusasi otto mesi dopo con l’uccisione del dittatore. Il tutto è avvenuto molto rapidamente, accettando quasi all’unanimità, con le sole astensioni di Russia e Cina, il trasferimento di legittimità da un governo all’altro e mettendo mano alle armi molto in fretta sotto la pressione di un’emergenza umanitaria.
Nella crisi attuale c’è un solo governo riconosciuto, quello in esilio a Tobruk. E’ l’unico regolarmente eletto e accettato, nato dalla componente più matura della rivoluzione contro Gheddafi. Eppure la condizione che poniamo, per aiutarlo a sconfiggere la guerriglia jihadista, è la sua accettazione di un compromesso con un autoproclamato governo islamista, nato da un colpo di Stato e insediatosi a Tripoli. Lo stesso governo auto-proclamato che, negli ultimi mesi, è a sua volta alle prese con un esercito jihadista ancor più estremista. Al governo rivoluzionario di Bengasi, nel 2011, nessuno ha mai chiesto di scendere a compromessi con Gheddafi, come precondizione per l’ingerenza umanitaria. Non si può dire che, in questi giorni, non vi sia un’emergenza, visto quel che sta accadendo a Sirte. E non si può dire che non vi sia un pericolo di escalation, considerando le numerose minacce che l’Isis rivolge all’Italia (“bruceremo Roma”), molto più pesanti rispetto a quelle del defunto Gheddafi.