Iran, il risiko attorno allo Stretto di Hormuz
Teheran tirerà la corda mollando prima che si spezzi. Sanzioni
e chiacchiere servono fino al test nucleare. Poi sarà che intoccabile.
L’Iran gioca all’attacco e in vista di probabili sanzioni europee sull’export petrolifero, che potrebbero venir decise a fine gennaio, gioca la carta delle pressioni militari sugli Stati Uniti. Dieci giorni di esercitazioni della marina con il lancio di quattro missili antinave e antiaerei hanno fatto da corollario alla minaccia di chiudere lo Stretto di Hormuz e all’avvertimento a Washington di non far entrare le portaerei nelle acque del Golfo, come ha ammonito il capo di stato maggiore delle forze armate di Teheran, generale Hassan Firouzabadi.
Gli Stati Uniti hanno risposto nei giorni scorsi alla sfida iraniana facendo attraversare un paio di volte Hormuz alla portaerei Stennis, nave peraltro troppo grande e vulnerabile in acque ristrette come quelle del Golfo e subito tornata nell’Oceano Indiano da dove invia i suoi jet sull’Afghanistan ma costituisce anche un formidabile deterrente contro le provocazioni di Teheran.
Un eventuale blocco di Hormuz, lo Stretto attraverso il quale transita oltre il 20% del petrolio mondiale, sarebbe attuabile in breve tempo da Teheran ma costituirebbe una dichiarazione di guerra al mondo intero che consentirebbe ai nemici dell’Iran (Stati Uniti e monarchie arabe in testa) di scatenare un attacco militare su vasta scala contro il regime degli ayatollah.
Improbabile che Ahmadinejad intenda “suicidarsi” quando, secondo l’intelligence israeliano, il suo programma nucleare è giunto a meno di un anno dalla capacità di testare un ordigno atomico che renderebbe di fatto l’Iran una potenza nucleare, quindi inattaccabile. Mentre Stati Uniti e Unione Europea “si gingillano” sulle sanzioni petrolifere a fotografare la situazione ha provveduto ieri il ministro degli Esteri francesi Alain Juppé secondo il quale «l'Iran prosegue la preparazione della sua arma nucleare” sottolineando che per questo “la Francia, senza chiudere la strada al negoziato e al dialogo con l'Iran, auspica un inasprimento delle sanzioni».
Chiacchiere e sanzioni stanno bene anche a Teheran che, mostrando i muscoli a Hormuz, guadagna tempo per la sua atomica mentre sostiene il traballante regime alleato di Damasco. L'escalation di tensione messa attuata dall'Iran «riflette il fatto che il Paese è in una posizione di debolezza» ha affermato il portavoce della Casa Bianca, James Carney, sottolineando che l’Iran «è isolato e cerca di distogliere l'attenzione dai suoi problemi interni». Il Dipartimento di Stato di Washington è convinto che le minacce iraniane di affondare la portaerei Stennis quando questa ritornerà nel Golfo Persico attraverso lo Stretto di Hormuz, dimostrano che le sanzioni economiche stanno mettendo in difficoltà il regime degli ayatollah. «Consideriamo queste minacce come la prova sempre più evidente che la pressione internazionale sta iniziando a "mordere"», ha dichiarato il portavoce Victoria Nuland.
A Washington ostentano ottimismo ma a ben guardare l’Iran sta già preparandosi ad affrontare le sanzioni petrolifere vendendo altrove il suo petrolio. Ha stipulato un accordo in proposito con l’Afghanistan, aumenterà il suo export in Cina (sempre affamata di materie prime) e nei prossimi giorni il presidente Mahmoud Ahmadinejad guiderà una delegazione commerciale in Sudamerica dove probabilmente proporrà il greggio iraniano a Cuba, Ecuador e Nicaragua e un accordo per commercializzarlo al Venezuela che è un grande esportare di petrolio.
Iniziative che forse non miglioreranno di molto le sorti di un’economia iraniana già da tempo al collasso (il rial ha raggiunto il record negativo nel cambio col dollaro) ma che proprio per questo potrebbe resistere a lungo anche a sanzioni petrolifere anche grazie all’aiuto non disinteressato di Mosca e Pechino. Del resto sulla crisi iraniana ingrassano pure gli statunitensi che hanno appena firmato un contratto da 30 miliardi di dollari per vendere ai sauditi 84 jet F-15S e ammodernare 70 velivoli dello stesso tipo ma di versioni più vecchie. Un affare che rappresenta circa un terzo delle forniture militari previste da Washington ai Paesi arabi del Gulf Cooperation Council, una sorta di “Nato del Golfo” costituita per fronteggiare la minaccia iraniana, che riceveranno nei prossimi anni armi made in Usa per quasi 100 miliardi di dollari. Sufficienti a compensare il calo degli ordini interni determinati dai tagli al budget del Pentagono.