Inizia la vera grande guerra commerciale fra Usa e Cina
Fra Cina e Usa è ormai guerra aperta. Una guerra tariffaria che si sta trasformando in un fenomeno che non ha precedenti nella storia recente del commercio. Deciso a piegare Pechino alle sue richieste, Trump impone dazi su 34 miliardi di importazioni. Pechino risponde allo stesso modo.
Fra Cina e Usa è ormai guerra aperta. Una guerra tariffaria che sta andando ben oltre le prime sanzioni temporanee e si sta trasformando in un fenomeno che non ha precedenti nella storia recente del commercio. Decisa a piegare Pechino alle sue richieste (rispetto della proprietà intellettuale, fine del protezionismo cinese, fine degli aiuti di Stato alle imprese cinesi, fine della manipolazione valutaria), l’amministrazione Trump ha applicato tariffe su 34 miliardi di merci di importazione dalla Cina. Il regime di Pechino ha risposto a strettissimo giro di posta, imponendo le proprie tariffe su 34 miliardi di prodotti di importazione dagli Stati Uniti.
Non è dato sapere quanto dureranno queste misure restrittive, che comunque sono considerate temporanee da entrambe le parti. Vista l’entità e la posta in gioco, dureranno almeno diversi mesi, probabilmente (secondo esperti vicini all’opposizione statunitense) finiranno almeno nel 2019 inoltrato, forse saranno destinate a durare anni. La Cina ha accusato gli Usa di aver lanciato “la più grande guerra tariffaria nella storia dell’economia”, dichiarandosi “costretta” a contrattaccare. Gli Usa hanno imposto dazi del 25% su importazioni di macchinari, componenti automobilistiche e attrezzature mediche. Sono tutti settori in cui la produzione americana è molto forte e Trump intende proteggerla: è la sua principale proposta politica dai tempi della campagna elettorale. La Cina risponde con dazi (sempre del 25%) su prodotti agroalimentari e sui veicoli sportivi. Colpire l’agricoltura è una mossa puramente politica. Il presidente cinese Xi Jinping ha visitato più volte le fattorie americane. Vi ha anche studiato in gioventù. Sa bene che è nelle aree rurali che i Repubblicani prendono più voti. Come Trump, con il nuovo protezionismo, mira a cementare il suo consenso, Xi punta a minarglielo alla radice. Intanto il commercio fra i due paesi si riduce.
Toni da guerra, quelli usati dal ministero del Commercio cinese: Pechino “non sparerà il primo colpo, ma per salvaguardare l’interesse nazionale del paese e gli interessi del popolo, la Cina è costretta a rispondere come necessario – e questo finché – gli Usa non saranno costretti a tornare ad essere ragionevoli (dopo aver pagato, ndr) un prezzo terribile”. I vertici di Pechino ritengono che i dazi americani avranno un impatto minimo sul ritmo di crescita del paese. L’economista Ma Jun, della Banca Centrale cinese stima che le previsioni di incremento del Pil saranno incrinate di appena lo 0,2%. Da un punto di vista legale, il ministero del Commercio annuncia che farà rapporto all’Organizzazione Mondiale del Commercio (Wto) per difendere il sistema basato sul libero commercio. Un sistema che la Cina, secondo le accuse, sia degli Usa che dell’Ue, ha violato sistematicamente. La stessa ammissione della Repubblica Popolare al Wto è stata più politica che economica: tuttora non può essere considerata come una “economia di mercato”, perché sono tanti e tali gli interventi dello Stato che può essere ancora descritta come un sistema economico socialista. Riformato nel corso dei decenni, ma ancora socialista. Quindi è esattamente come aver ammesso come concorrente alla pari uno Stato intero contro le aziende private europee, americane e degli altri paesi industrializzati.
E’ precisamente questa la risposta degli ambienti vicini all’amministrazione americana. Steve Bannon, ex stratega di Trump e uno dei principali ispiratori della guerra tariffaria, ritiene che gli Usa si stiano difendendo da una guerra tariffaria, non siano dalla parte degli aggressori che hanno colpito per primi la libertà di commercio: “La Cina ci ha fatto la guerra tariffaria per almeno 20 anni e ora ha incontrato qualcuno che tiene la posizione e risponde al fuoco”, ha commentato Bannon al Wall Street Journal.
Chi sta perdendo la guerra? E’ ancora troppo presto per dirlo. “E’ chiaro che la Cina abbia da perdere molto di più”, sostiene il consigliere al Commercio statunitense Peter Navarro. Ed è abbastanza ovvio che lo dica, visto il suo ruolo istituzionale. I primi dati, comunque, pare gli diano ragione. I mercati statunitensi, almeno inizialmente, hanno assorbito bene il colpo. Non si può dire lo stesso per quelli cinesi: venerdì 6 giugno, all’indomani degli annunci, Shanghai Composite Index ha perso alla pausa lo 0,3 % trascinando la perdita settimanale al 4,3%. Alla chiusura ha registrato una perdita di 9,18 punti, una delle giornate peggiori da febbraio 2016. Oltre 1.400 titoli della borsa di Shanghai sono destinati a chiudere in ribasso per la settima settimana consecutiva. Una serie negativa del genere non si registrava da sei anni. Anche Hong Kong ha chiuso in negativo.
La forza economica degli Stati Uniti è il singolo fattore più importante che ha indotto Trump a procedere con la guerra tariffaria. I dati macroeconomici, nel secondo anno di governo repubblicano, sono molto incoraggianti: il tasso di disoccupazione è ai livelli minini fin dal 2000, si alzano i salari e i redditi, l’output economico è aumentato del 4% annuo. Insomma l’economia va bene, la tanto temuta “Trumpnomics” sta funzionando. Quindi?
Il dubbio viene, semmai, per la scala senza precedenti in cui viene combattuta questa guerra tariffaria. Nel 1971, l’amministrazione Nixon aveva imposto tariffe sulle importazioni per soli quattro mesi. Le tariffe imposte da Ronald Reagan sulle auto giapponesi, o quelle di Bush (padre) sull’agroalimentare europeo negli anni ’80, riguardavano importazioni per un valore di centinaia di milioni di dollari, non per decine di miliardi. Inutili i paragoni col passato recente, dunque, sappiamo che è iniziata una guerra tariffaria, ma non sapremo mai come andrà a finire, questa volta.