Immigrazione, il boomerang del ministro lussemburghese
La battuta volgare del ministro lussemburghese a Salvini sull'immigrazione è la fotografia dell’abissale distanza che c’è in Europa tra due visioni opposte e inconciliabili sull'uomo. Ma è la stessa storia dell'immigrazione dei nostri nonni presa a modello che rivela che devono esserci regole e norme. Parla il demografo Blangiardo.
Il vivace scambio di battute tra il ministro degli Esteri lussemburghese e il vicepremier Matteo Salvini è molto più di uno scambio di opinioni condito da un linguaggio colorito. E’ piuttosto la fotografia dell’abissale distanza che c’è in Europa tra due visioni opposte e inconciliabili non solo sul problema dell’immigrazione, ma anche su una visione e concezione dell’uomo antitetica. Impossibile dunque trovare una conciliazione, sarebbe più facile perdonare Jean Asselborn per averci accusato di essere delle “merde” con quella spocchia tipicamente radical chic con la r moscia.
Ma è impossibile anche una conciliazione tra le due idee di immigrazione che emergono in forma di boomerang dalle parole di Asselborn. Perché le sue parole sono semmai la riprova che l’immigrazione deve essere normata, ma soprattutto che non ha più senso paragonare fenomeni migratori diversi tra di loro come sono quello attuale e quello che ha coinvolto i nostri nonni e bisnonni negli anni immediatamente pre e post guerra.
Il caso ha fatto il giro delle agenzie in pochi minuti dopo che Salvini lo ha reso noto su Fb ed è girato il video. Salvini, intervenendo a Vienna alla Conferenza su sicurezza e immigrazione ha ricordato ad Asselborn “di essere al governo e di essere pagato per aiutare i nostri giovani a tornare a fare quei figli che facevano qualche anno fa e non per espiantare il meglio dei giovani africani per rimpiazzare i giovani europei che per motivi economici oggi non fanno più figli”. E ha aggiunto: “Magari in Lussemburgo c’è questa esigenza, in Italia invece abbiamo l’esigenza di aiutare i nostri figli a fare degli altri figli e non ad avere nuovi schiavi per soppiantare i figli che non facciamo più”.
La reazione del ministro lussemburghese non si è fatta attendere con l’epiteto “stercale” e la solita narrazione immigrazionista volta a instillare nel popolo italiano un senso di colpa ormai antistorico: “In Lussemburgo, caro signore, avevamo migliaia di italiani che sono venuti a lavorare da noi, dei migranti, affinché voi in Italia poteste avere i soldi per i vostri figli”.
Ecco, il punto è proprio questo. Chissà quanti mai saranno stati i nostri connazionali emigrati in Lussembrugo? E soprattutto: anche riconosciuto che ci sia stata una immigrazione per motivi economici, vuoi scommettere che questa era normata e regolamentata? Scommettiamo, in buona sostanza, che ciò che Asselborn ricorda agli italiani non è altro che il modello di immigrazione che la Lega nord vorrebbe favorire e che è completamente opposto a quello del porte aperte a tutti?
“E’ proprio così – spiega il demografo Giancarlo Blangiardo alla Nuova BQ - il Lussembrugo era un Paese di pastorizia e poco più ed è grazie alla presenza delle istituzioni comunitarie se è riuscito a sopravvivere”. Ma il riferimento all’immigrazione? “C’erano miniere di ferro e un minimo di indotto nel sud del Paese”, ha proseguito l’esperto di popolazione e migrazioni, ma stiamo parlando di 50-60 anni fa, un altro mondo, un altro tipo di immigrazione che soprattutto era regolare e regolata. Gli italiani, pochi, che sono emigrati in Lussemburgo non entravano di nascosto, ma varcavano il confine con l’approvazione di coloro che potevano dargli lavoro. Certo, lavoro duro, nelle miniere, come è avvenuto in Belgio, ma è un’altra storia”.
Le parole di Blangiardo mostrano dunque che la boutade di Asselborn è viziata dal solito pregiudizio antitaliano di allora, con l’aggiunta dello snobismo tipico dei radical chic della Sinistra eurocratica. “Non possiamo fare questi discorsi. Sarebbe come andare a ripescare i movimenti migratori nell’Antica Roma. Ma soprattutto non ammettere che quei movimenti di inizio e metà del secolo scorso erano regolamentati col consenso dell’autorità locale e che chi non era in regola veniva rispedito indietro senza tanti complimenti né che potesse sentirsi violato nei diritti umani”.
L’episodio di Vienna si inserisce così nello scontro che vede due concezioni antropologiche opposte e sarà interessante nelle prossime ore vedere come i giornali di establishment tratteranno la notizia: se faranno valere un minimo di “amor patrio” rispetto alle affermazioni inaccettabili e un po’ opportunistiche del ministro lussemburghese o se invece prevarrà la solita caccia tipicamente italiana al fascioleghista.
In quanto a Salvini bisogna riconoscere che seppur a parole ha dimostrato di avere perfettamente chiaro qual è lo spirito che anima la sua visione dell’immigrazione e che il problema della denatalità non può assolutamente mescolarsi con una soluzione immigrazionista e sostituzionista come quella a cui assistiamo perché viziata da una operazione di stampo schiavistico.
Semmai al vicepremier bisognerebbe ricordare che alle parole ben dette su politiche famigliari in chiave natalista bisognerebbe accompagnare anche qualche fatto per cercare di essere almeno concreti nell’azione. Ma dagli ultimi chiari di luna della manovra di bilancio sembra che questo concetto sia ancora lontano dall’essere recepito. Anche la Flat Tax, che potrebbe dare ossigeno alle famiglie sembra lettera morta. Si dice che non ci sono soldi ed è vero. Ma questo può essere anche una scusa. Forse servirebbe oltre ai proclami, anche iniziare ad avere il coraggio di cambiare l’architrave del sistema fiscale partendo dalla famiglia e non dal singolo individuo. Sarebbe una rivoluzione, per la quale servono coraggio e faccia tosta. Gli stessi requisiti, in fondo, che Salvini ha messo in campo per rispondere al ministro lussemburghese.