ARTE E CATECHESI/9
Immagine e sacramento, un rapporto necessario
L’annuncio cristiano contiene l’incontenibile. Come Maria che abbraccia in grembo il bambino Gesù. Deve testimoniare l’incarnazione.
Cultura
13_08_2011
La Madonna con in braccio il bambino Gesù: è un’immagine diffusa, difficile non trovarla in una chiesa; è un’immagine familiare, che si fa vicina al saluto, alle suppliche, al respiro di chi le va incontro.
Un’immagine che non restituisce solo un momento di tenerezza o di regalità. Sulle sue ginocchia, infatti, «la vita si è fatta visibile» (1Gv 1,2). Nel particolare si rivela l’intero. In lei ha preso carne Colui che è fin dal principio. Il grembo di Maria ha contenuto l’incontenibile. Inni antichi cantano: «hai portato nella stretta stanza dei tuoi fianchi colui che i cieli non sanno contenere».
Se ci soffermiamo su Maria che presenta il Figlio ci accorgiamo che tutta la storia dell’arte cristiana esiste perché le sua braccia di creatura hanno abbracciato il creatore. Dio infatti, di per sé, non è rappresentabile. «Nessuno mai ha visto Dio» (1Gv 4,12): l’Infinito sfugge a qualsiasi linea che pretenda di circoscriverlo. Ma l’evento cristiano annuncia l’inaudito: Dio si è rivelato nella persona di Cristo, il Verbo si è fatto carne. Il Figlio unigenito, nato dal Padre prima di tutti i secoli, si è fatto uomo nascendo da Maria.
La possibilità di rappresentare Cristo ha a che fare con la verità stessa dell’incarnazione. Nei testi del secondo Concilio di Nicea (787) viene esplicitato con forza sia che «Maria ha generato nella carne uno della Santa Trinità, Cristo Dio nostro» sia che «la rappresentazione pittorica è in accordo con la proclamazione evangelica, a conferma dell’incarnazione del Verbo di Dio, incarnazione vera e non fittizia».
Questa attenzione di quel concilio nel riaffermare l’autentica maternità di Maria assieme alla liceità delle immagini sacre nasceva dal costante pericolo, presente allora come oggi, di una falsa spiritualizzazione dell’Incarnazione che, pretendendo di preservare la purezza della divinità dal legame con la storia, portava a pregiudicare la sollecitudine di Dio per gli uomini, la sua piena rivelazione nell’evento del Figlio, l’attualità dell’opera dello Spirito Santo.
L’arte cristiana, quindi, testimonia e rimanda al mistero dell’incarnazione, e per questo può fungere da veicolo e strumento con cui Dio dispone le sue creature all’incontro con Cristo e alle meraviglie della grazia. È opportuno sottolineare che non è l’immagine artistica a conferire la grazia, ma agevola le persone a porsi nella condizione di riceverla.
L’immagine non è luogo della presenza reale di Dio. Perché questa sta e si dona nel sacramento.
Che a differenza dell’immagine non mira a estendersi in una narrazione, ma piuttosto a contrarsi, a concentrare il peso della propria fisicità e della propria efficacia nella concisa azione del gesto e della parola.
Che a differenza dell’immagine non mira a estendersi in una narrazione, ma piuttosto a contrarsi, a concentrare il peso della propria fisicità e della propria efficacia nella concisa azione del gesto e della parola.
Il sacramento, infatti, riprende parole e gesti istituiti da Cristo e si consegna alla vita umana in modo semplice, con sobria solennità: dell’acqua versata sul capo, l’unzione della fronte, un segno di croce, una veste bianca, una mano posta nell’altra, un sì, un no, l’inginocchiarsi, il pane, il vino.
Il sacramento non cerca di tradursi, e quindi di fissarsi, in immagine ma restituisce il segno di apertura attraverso cui Dio si dona nella possanza dello Spirito che vivifica, trasforma, rigenera, redime la vita e la storia degli uomini.
C’è dunque un rapporto delicato quanto necessario tra immagine e sacramento: l’immagine custodisce una familiarità col divino, esercita quella confidenza con Dio che permette di riconoscerlo e accoglierlo quando, con la grazia del sacramento, entra nella vita e nella storia di ciascuno. La storia della salvezza, infatti, non è cosa antica, ma sta andando avanti perché la grazia agisce ora. E questa storia, questa sì, può tradursi in sempre nuove immagini, in nuova memoria, in nuova confidenza, a testimonianza della continua azione di Dio tra gli uomini.
L’annuncio cristiano contiene l’incontenibile. Come Maria che abbraccia in grembo il bambino Gesù. Deve testimoniare l’incarnazione, la somiglianza di Dio che si fa uomo, ma senza perdere l’eccedenza della sua divinità. È quindi cruciale, ne va della verità dell’annuncio, mantenere un equilibrio tra immagine e sacramento.
C’è un episodio del Vangelo che traccia una modalità per inoltrarsi in questi temi, ed è quello di Emmaus (Lc 24, 13-33). I due discepoli che se ne vanno sconsolati hanno bisogno che qualcuno si accosti a loro e li aiuti a rileggere e comprendere quanto accaduto nei giorni della Passione di Cristo a Gerusalemme. E lo fa Gesù stesso, con la fisicità piena di chi cammina assieme e si siede a tavola. Egli usa le immagini della narrazione per far loro riprendere confidenza con l’intera storia della salvezza. Questo già scalda loro i cuori. Ad un certo punto, Cristo spezza il pane e “sparì dalla loro vista” (Lc 24, 31). La discorsività dell’immagine si ritrae e lascia spazio all’eloquenza del sacramento. Tutta la storia della salvezza si mostra compiuta tra due pezzi di pane. E quel gesto non solo scalda il cuore dei due discepoli, ma lo illumina e lo trasforma. Li fa partire senza indugio verso Gerusalemme, per portare l’annuncio che contiene l’incontenibile.