Il vescovo di Aleppo piange sulle rovine della Siria
Monsignor Abou Khazen ospite della Regione Lombardia traccia il bilancio del conflitto e della sporca guerra dell'Isis: «Il cessate il fuoco infranto non fa notizia nei tg, il mosaico di 23 etnie che vivevano in pace è stato disgregato, oltre 43mila fabbriche sono state chiuse, siamo rimasti senz'acqua per due mesi. E l'embargo danneggia i poveri che bruciano le scarpe per scaldarsi. Ma il gesto del Papa a Lesbo ci ha dato speranza». Anche se la distruzione della chiesa dei domenicani di Mosul, già abbandonata, alimenta l'angoscia.
«Abbiamo avuto della settimane un po' più facili, soprattutto durante la Pasqua: c'era la tregua, abbiamo visto tanta gente nelle chiese. Da alcuni giorni, però, purtroppo questa tregua è stata rotta. Hanno ricominciato di nuovo a bombardare».
Il vicario apostolico mons. Abou Khazen parla nella sede della Regione a Milano, ma lo stesso racconta praticamente in presa diretta il dramma che si sta consumando in queste ore nella sua Aleppo. Frate francescano libanese, già parroco nella grande città del Nord della Siria, ieri nel capoluogo lombardo il vescovo latino proveniente dalla Siria ha incontrato un gruppi di consiglieri regionali ma anche tanta gente in un incontro pubblico organizzato dal Centro culturale di Milano. A tutti ha raccontato la quotidianità della guerra ad Aleppo e di quel cessate il fuoco finito in frantumi senza che nemmeno la cosa faccia notizia nei nostri tg.
«Siamo entrati nel sesto anno della guerra - spiega mons. Abou Khazen -. La metà della popolazione in Siria è profuga, la distruzione è totale: sembra l'Apocalisse. E le minoranze sono coloro che hanno sofferto di più: cristiani, yazidi, assiri, caldei, musulmani moderati che stanno anche loro soffrendo». Viene dal cielo la morte sui quartieri dei cristiani ad Aleppo: ha di nuovo il volto delle bombole di gas lanciate dalle milizie islamiste sulle zone controllate dall'esercito di Assad. Solo nelle ultime ore sono una ventina i morti provocati da questi ordigni, artigianali ma non meno letali rispetto a tutti gli altri. «La gente li chiama il cannone dell'Inferno - racconta il vescovo - tanta è la distruzione che provocano».
Distruzione non solo fisica: «La Siria è composta di 23 gruppi etnici e religiosi differenti - continua il vescovo -. Mi piaceva paragonarlo a un bel mosaico. È proprio questo ciò che i gruppi legati all'Isis e ad al Nusra vogliono distruggere. Vogliono ridurre tutto a un colore solo, il colore nero». Descrive le proporzioni di questa distruzione, mons. Abou Khazen: «Aleppo era paragonata a Milano: era la città industriale e commerciale della Siria - ricorda -. C'erano 43mila tra fabbriche e piccole aziende, alcune avevano anche tremila operai. Adesso non c'è più nulla: i macchinari sono stati rubati, li hanno venduti in Turchia. L'hanno fatto persino con il grano immagazzinato nei silos: portato via e venduto per due piastre. Mentre la gente ad Aleppo per mesi e mesi soffriva la fame».
«Per due anni siamo stati sotto assedio completo: mancava proprio tutto - continua -. Poi l'esercito regolare è riuscito ad aprire un varco, la strada da cui adesso arrivano i rifornimenti, il carburante, la possibilità di entrare e uscire. Ma la città resta divisa a metà: metà dei quartieri è nelle mani dei gruppi fondamentalisti e metà sotto l'esercito regolare».
Resta durissima la vita ad Aleppo: «L'acqua e l'elettricità sono le due sfide più grandi oggi - spiega il vescovo francescano -. Sono sette mesi che siamo senza elettricità: per avere un po' di corrente dobbiamo rifornirci dai generatori che sono nelle strade. Spesso poi i jihadisti ci tagliano l'acqua: l'ultima volta siamo rimasti più di due mesi senza. Per fortuna in città ci sono dei pozzi soprattutto nelle chiese, nei conventi, nelle moschee. Li abbiamo aperti e la gente viene ad attingere l'acqua. Ma la povertà e la distruzione sono tali che mancano persino i recipienti per farlo. Così come Chiese abbiamo cominciato a distribuire dei bidoni. Nelle case non c'erano i serbatoi, perché l'acqua non era mai stata un problema: stiamo aiutando le famiglie a procurarsele. Alcuni camioncini, poi, li abbiamo trasformati in piccole autocisterne: li utilizziamo per portare l'acqua agli anziani e agli ammalati. E aiutiamo tutti, senza differenza di etnia o religione».
La disoccupazione è ovunque ad Aleppo. «Non c'è il lavoro, non c'è il commercio - spiega mons. Abou Khazen -. Un dollaro valeva 50 lire siriane, adesso ne vale 550. E lo stipendio - per chi ha la fortuna di avercelo ancora - è rimasto lo stesso. L'embargo? Danneggia solo la povera gente che arriva a bruciarsi le scarpe per riscaldarsi».
In un contesto del genere non può stupire che la gente prende la strada dell'Europa. E non finirà finché non si porrà fine alla guerra. Racconta di sentirsi come un padre che vede i propri figli partire: «Siamo grati per ciò che questa città sta facendo per tanta nostra povera gente - ringrazia il vescovo venuto dalla Siria -. Speriamo sia un esempio per altri di apertura e di accoglienza».
Eppure, nonostante il dramma, continua a credere fermamente nella Siria come mosaico di etnie e religioni diverse. E non solo lui: «Il gesto del Papa a Lesbo è stato percepito da tanti musulmani per la sua delicatezza: lo hanno ammirato molto - racconta -. Ci sono musulmani di Aleppo che quando vedono i cristiani che partono li invitano a restare. Dicono loro: “Per favore non lasciateci soli”».
I gruppi che sparano le bombole del gas su Aleppo proprio questo vogliono distruggere; e mons. Abou Khazen non ha paura di dirlo ad alta voce. Del resto ieri da Mosul, l'altra città martire, è giunta l'ennesima conferma, con la notizia di un nuovo scempio: la distruzione della chiesa dei domenicani, la chiesa con l'orologio, punto di riferimento per i fedeli di rito latino nella città irachena. Da quasi due anni ormai loro non ci sono più, costretti all'esilio; ma allo Stato islamico non basta: del mosaico vuole cancellare ogni ricordo. Mentre tutti parlano dell'indebolimento dell'Isis, sbandierando successi veri o presunti, sul terreno il terrore e la devastazione vanno avanti. Mentre la comunità internazionale - in Siria come in Iraq - mostra ancora una volta di avere ben altri interessi e priorità.