Il trionfo del giustizialismo
Domenica voteremo per il rinnovo del parlamento europeo, ma la campagna in corso sembra quella di un'elezione nazionale, fatta di colpi bassi e inchieste. Sia Renzi che Grillo strizzano l'occhio alla magistratura. Ma di giustizialismo si muore.
Domenica si vota per il rinnovo del Parlamento europeo, ma la campagna elettorale in Italia è tutta dominata dalle fibrillazioni sulla tenuta del governo e sul futuro delle riforme. Sondaggi vietati ma neppure tenuti troppo nascosti annuncerebbero un exploit del Movimento Cinque Stelle, che in alcune regioni del sud e nelle isole sfonderebbe il tetto del 30% dei voti. I grillini, su base nazionale, dovrebbero comunque andare oltre il 25%, mentre il Pd viaggerebbe intorno al 32%, Forza Italia si attesterebbe sul 18%, Lega e Ncd (e Fratelli d’Italia-Alleanza Nazionale) supererebbero la soglia di sbarramento.
Con uno scenario simile cosa potrebbe succedere? Renzi minimizza e assicura che, indipendentemente dall’esito delle urne, il governo non correrà rischi e il processo di riforme non si arresterà. Ma sa bene che non è così. Un Grillo galvanizzato da un successo elettorale diventerebbe ancora più destabilizzante per il sistema e dentro il centrodestra si aprirebbe il dopo-Berlusconi, con una ricomposizione attorno a una nuova figura che potrebbe anche essere Marina, la figlia dell’ex premier.
Il premier è consapevole del fatto di non essere stato legittimato da un voto popolare e teme di fare la stessa fine di Letta, quindi cercherà di giocare d’anticipo e di concordare con Berlusconi una legge elettorale che metta al riparo la prossima legislatura da rischi di governi a guida Cinque Stelle e conduca entro un anno ad elezioni politiche, Napolitano permettendo. Già nelle interviste rilasciate ieri Renzi ha messo le mani avanti: “Se non mi lasciano fare le riforme, io ho fallito e lascio”. Questo significa agitare nuovamente lo spettro delle urne anticipate per terrorizzare tutti quei parlamentari, dentro e fuori il suo partito, che vorrebbero tendergli imboscate, boicottare l’azione dell’esecutivo e impedire le riforme. E’ come se volesse dire loro: “Se mi remate contro, mi dimetto e vi mando tutti a casa, senza ricandidarvi”.
La partita, però, sembra più ampia. E’ in atto in Italia uno stravolgimento della mappa dei poteri, in parte anche traumatica. Da una parte le inchieste giudiziarie che coinvolgono politici e imprenditori (Expo, Matacena e altre), dall’altra quelle che investono il mondo bancario (significativa quella su Bazoli, assai delicata quella di Carige) sembrano l’ennesima prova di forza di una magistratura che vuole ribadire la sua supremazia tra i poteri dello Stato e dettare l’agenda dei temi alla politica. Rispetto a vent’anni fa, però, il potere politico è decisamente più debole e destrutturato, la crisi economico-finanziaria e l’internazionalizzazione della governance hanno ridotto i margini di potere del sistema bancario e finanziario nazionale e le sue capacità di condizionamento sulle scelte fondamentali per il Paese. Sembra rimanere in campo solo la magistratura “onnivora”, quella che in alcuni casi lodevolmente combatte il malaffare e cerca di ripristinare condizioni di legalità, ma in altri casi sembra ingaggiare una battaglia del tutto discutibile con gli altri poteri per affermare la sua supremazia e rifiutare ogni ipotesi di riforma della giustizia.
Dopo Mani Pulite alcuni magistrati come Di Pietro scesero in politica per capitalizzare in termini di consensi il credito che avevano acquisito nell’opinione pubblica cavalcando le pulsioni giustizialiste. Oggi la cosa potrebbe ripetersi: si parla già di una candidatura alle prossime elezioni regionali campane dell’attuale commissario Expo 2015, Cantone. Per un anno farà lo “sceriffo” con pieni poteri, poi diventerà presidente della Regione Campania. Stesso destino sembra toccare a breve a Nicola Gratteri, procuratore aggiunto della Repubblica presso il Tribunale di Reggio Calabria. Per lui il Pd avrebbe pronta la candidatura a presidente della Regione Calabria, carica dalla quale l’alfaniano Scopelliti si è dovuto dimettere anzitempo, in seguito alla condanna a sei anni per abuso d’ufficio.
Renzi preferisce, dunque, affidarsi all’unico potere ancora saldo e pienamente in sella, quello giudiziario, e intende “coprirsi” selezionando candidati di quel mondo per incarichi politici. In questo modo dà ragione a Grillo, che di fatto ha dettato l’agenda dei temi in campagna elettorale, rilanciando alla grande il tema della questione morale e mettendo nell’angolo Berlusconi, e si è convertito a un giustizialismo quasi forcaiolo che rischia di schiacciarlo a sinistra e di fargli perdere i voti moderati. L’accelerazione sull’arresto di Genovese è stato il primo segnale in tal senso. Le candidature di Gratteri e Cantone confermerebbero questa impressione sul cambio di rotta del premier.
Ma di giustizialismo il Paese morirebbe. La selezione politica non può essere affidata alle Procure, i magistrati non devono sfruttare la notorietà che acquisiscono in virtù di alcune inchieste per poi chiedere i voti ai cittadini e fare carriera politica. Anche questa è un’anomalia tipicamente italiana che toglie ulteriore credibilità alle toghe. Un Paese che si rassegna a candidare i magistrati pur di convincere gli elettori a recarsi alle urne è un Paese che straccia la Costituzione e consacra il “governo dei giudici”, che tutto è fuorchè un governo democratico.
Grillo parla di processi via web a imprenditori, politici e giornalisti, strumentalizzando una giustificata insofferenza dei cittadini verso i nuovi scandali legati alle tangenti e alla corruzione. Ma se la politica abdica e se i partiti rinunciano a selezionare la classe dirigente la democrazia muore. Grillo potrebbe esserne il killer, se gli si lascerà campo libero in questo suo delirio nichilista e distruttivo, in grado di assecondare i moti di disperazione di molti cittadini ma incapace di guidare un Paese e di dare prospettive alle nuove generazioni.