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TELEVISIONE

Il «tributo» alla Rai: un omaggio o una tassa?

Ambiguità (compreso l'uso di immagini di Giovanni Paolo II) e forzature caratterizzano gli spot per il pagamento del canone Rai.

Attualità 31_01_2012
Spot Rai con Giovanni Paolo II

“Un tributo a chi, dopo centocinquant’anni, non ha ancora smesso di unire gli italiani. Un tributo a chi ha un unico credo: il rispetto per ogni credo. Un tributo a chi dà sempre voce a chi non smette mai di dare una mano. Un tributo a chi sostiene il servizio pubblico con il canone. Il canone tv è un tributo come tutti gli altri. Pagarlo non è solo un gesto di civiltà: è un obbligo”.


Con queste parole una voce fuori campo accompagna le immagini di uno degli spot per il pagamento del canone Rai, quello in cui compare fra le altre anche l’immagine di Giovanni Paolo II. La campagna di comunicazione si completa con altri spot della serie; in quello dedicato al “sociale” compaiono il maestro Manzi, il corridore Oscar Pistorius e Piero Angela; in quello dedicato all’informazione si vedono le immagini di giornalisti in teatri di guerra e manifestazioni popolari di piazza; quello dedicato all’intrattenimento ha per protagonisti Gianni Morandi, i calciatori della Nazionale, e alcuni attori di teatro.


Insomma, ce n’è per tutti i gusti e, d’altra parte, una televisione generalista non può permettersi di trascurare alcun segmento del suo preziosissimo pubblico. Non c’è telespettatore italiano che non abbia visto e sentito almeno uno di questi spot e probabilmente ce ne sono molti che li hanno visti e sentiti svariate volte, soprattutto in queste ultime settimane: quando si avvicina la fatidica data del 31 gennaio, tradizionale scadenza per il pagamento, la Rai moltiplica gli “inviti” a versare quanto dovuto, ogni anno con toni diversi ma sempre con lo stesso intento persuasorio.


La campagna di comunicazione di quest’anno ha puntato sulla potenza evocativa delle immagini e sulla forza delle parole attraverso una struttura narrativa ambigua, che parte in maniera “soft” e si conclude in tono perentorio e severo. Per un mezzo come la televisione, che fa delle immagini l’elemento catalizzatore di attenzione e curiosità, cadere in certe forzature può diventare un paradosso. E una forzatura a tutti gli effetti è la scelta di immagini di personaggi noti o cari al pubblico e di persone impegnate in attività a favore degli altri, accompagnate dalle frasi di cui sopra. L’invito a pagare il “tributo” è formulato come se quest’ultimo andasse a beneficio dei soggetti mostrati e non, invece, direttamente nelle casse della tv di Stato.


Anche per questo, oltre che per la disinvoltura con cui troppo spesso la televisione gioca con i simboli religiosi e gli uomini di Chiesa, desta inevitabile disappunto l’uso strumentale dell’immagine di Papa Wojtyla, come se (non) pagare il canone equivalesse a (non) riconoscere la sua grandezza spirituale e umana. La non fortunata frase che accompagna la sequenza in cui viene mostrato Giovanni Paolo II è un ulteriore elemento quantomeno discutibile: certamente il rispetto per il prossimo ha costituito una cifra caratteristica del pontificato di Giovanni Paolo II, ma riassumere in questo “il suo unico credo” è arbitrariamente riduttivo per un uomo che ha messo la sua fede a disposizione dei cristiani e del mondo intero.


Una carica evocativa minore ma altrettanto forzata segna l’accostamento fra le parole e le immagini di altri personaggi, dando l’impressione in più inquadrature di voler sfruttare i sentimenti di pietà, solidarietà e partecipazione alle vicende altrui sempre per il medesimo scopo: incassare il tributo.


Sull’ambiguità di quest’ultimo termine si gioca con troppa facilità: può significare sia la tassa dovuta che l’omaggio a qualcuno di cui si riconoscono le qualità indiscusse; ma anche il pedaggio oppure l’impegno morale nei confronti di qualcuno. Molti dei soggetti visualizzati negli spot sono degni di rispetto o di ammirazione, a partire da Giovanni Paolo II. Ma una tassa da versare obbligatoriamente è un’altra cosa.


Nella sua vis persuasoria, la Rai nel suo sito tiene a specificare che “il canone pagato in Italia è uno dei più bassi in Europa” e riporta “a titolo esemplificativo” il raffronto con altri Paesi europei. Una tabella riferita agli importi per il 2011 ci informa che in Svizzera si pagavano 365 Euro, che diventano 317 in Norvegia, 309 in Danimarca, 264 in Austria, 245 in Finlandia, 232 in Svezia, 215 in Germania, 169 in Gran Bretagna, 160 in Irlanda e 123 in Francia, contro i 110,50 dovuti lo scorso anno in Italia, oggi diventati 112 Euro.


La comparazione sarebbe certamente più completa se si paragonassero anche la qualità dell’offerta televisiva, l’incidenza della pubblicità sulle casse delle televisioni nazionali e la capacità di queste ultime di fornire un servizio pubblico degno di tal nome. Non siamo sicuri che la Rai otterrebbe un piazzamento altrettanto onorevole.


Giusto per voler essere capziosi fino in fondo, si può anche obiettare che l’affidamento di una campagna di comunicazione sul canone Rai a un’agenzia esterna alla tv di Stato rappresenta uno spreco, a prescindere da quanto sia (eventualmente) efficace e persuasivo l’esito. In Rai ci sono fior di professionisti, pagati anche attraverso gli introiti del “tributo” che ci viene puntualmente richiesto. Perché non valorizzare la loro personalità invece di aumentare le spese acquisendo una fornitura esterna?