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AFRICA

Il Sud Sudan resta ostaggio del tribalismo

Gravissimi scontri nel Jonglei, la dimostrazione che il tribalismo è una realtà dominante in Africa, e un grave handicap nel cammino per lo sviluppo.

Attualità 09_01_2012
sud sudan

Devono essere stati in molti a inarcare le sopracciglia, perplessi e increduli, quando papa Benedetto XVI, durante il suo viaggio apostolico in Benin dello scorso novembre, ha indicato il tribalismo come una delle tre principali cause dei drammi africani, insieme alla stregoneria e alla corruzione. Puntare così decisamente su cause interne del mancato sviluppo africano contrasta con una interpretazione del tutto diversa che, persino nelle aule universitarie e negli ambienti delle organizzazioni non governative, attribuisce la responsabilità dei problemi africani a una serie di fattori esterni dall’influenza devastante, a partire dal primo impatto tra Africa ed Europa nel XVI° secolo.  


Per quanto riguarda il tribalismo, poi, innumerevoli autori negano la sua stessa esistenza e addirittura il fatto che in Africa tradizionalmente individui e collettività costruiscano da sempre la loro identità sulla base dell’appartenenza a una etnia non scelta, bensì imposta per nascita e insostituibile. Tutt’al più, di fronte a tragedie come il genocidio dei Tutsi, in Rwanda, tentato dall’etnia Hutu nel 1994, si pretende che il tribalismo sia una realtà recente, prodotta dalla colonizzazione europea che avrebbe diviso in tribù popoli fino ad allora poco connotati etnicamente, creando rivalità e antagonismi mai visti, secondo il noto principio del divide et impera. Ammesso che di tribalismo si voglia parlare, la tendenza è di presentarlo come un fenomeno marginale, in un contesto generale di serena convivenza priva di tensioni, istigato dai politici che se ne servono per ottenere consenso e voti e attizzato dai disagi della povertà. Così si esprimono alcuni vescovi della Nigeria nonostante che, Boko Haram e integralismo islamico a parte, gli scontri tra etnie siano responsabili del clima di insicurezza che pervade molte città e campagne in questo stato popolato da circa 250 etnie.

Sembrerebbe quindi insensata e inspiegabile la violenza interetnica che nei giorni scorsi ha sconvolto il Jonglei, uno dei 10 stati di cui si compone il Sud Sudan, il paese nato dalla secessione dal Sudan appena sei mesi fa. Migliaia di Lou Nuer armati hanno attaccato diversi villaggi abitati dai Murle in prossimità della città di Pibor, hanno incendiato e distrutto un terzo delle abitazioni, mettendo in fuga e lasciando senza mezzi di sussistenza circa 60.000 persone. Inizialmente si è parlato di oltre 3.000 morti, una cifra che per fortuna, stando alle smentite delle Nazioni Unite, è stata esagerata dai primi testimoni. 

Resta vera la ragione del raid organizzato dai Lou Nuer. Un mese fa un gruppo di Murle ha attaccato di sorpresa, nel cuore della notte, un villaggio abitato da Lou Nuer e Dinka uccidendo 40 persone, ferendone una trentina, saccheggiando e dando alle fiamme quel che non poteva portare via. Prima, nel mese di agosto, numerosi giovani Murle avevano organizzato una razzia su vasta scala ai danni di alcune comunità Lou Nuer, a loro volta reagendo a un precedente furto di bestiame subito. Allora i Murle avevano fatto un bottino di ben 38.000 capi costato oltre 600 morti e quasi 1.000 feriti. L’attacco a Pibor è la vendetta dei Lou Nuer a cui presumibilmente seguirà prima o poi un nuovo raid Murle.


Analoghi conflitti insanguinano l’Africa opponendo comunità che ancora praticano economie di sussistenza e che, oggi come in passato, necessariamente compensano la loro scarsa capacità produttiva con le razzie e lottano per mantenere il controllo delle risorse naturali – sorgenti, pascoli, boschi, terre coltivabili... – ed estenderlo, a scapito delle comunità vicine. Pochi giorni prima della strage di Pibor, dei Borana, un’etnia di pastori che vive nell’arido nord del vicino Kenya, per vendicare una razzia di cammelli e di mucche ha assalito un villaggio di Turkana, uccidendo una decina di persone e mettendone in fuga circa 2.000. Durante la stagione secca di episodi del genere se ne verificano ogni giorno in tutta l’Africa orientale. E tuttora, come in passato, le razzie hanno come obiettivo anche gli esseri umani. Con il bestiame si rapiscono i bambini che con le donne sono la manodopera su cui grava la maggior parte delle attività lavorative secondo le regole di una divisione del lavoro che tradizionalmente assegna ai maschi poche mansioni e solo in alcune fasi della loro vita. I Murle ad agosto avevano rapito 200 piccoli Lou Nuer.