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TRA LE RIGHE

Il signore delle anime

Stupefacente e attuale questo romanzo di Irène Némirovsky. L’umanità, sembra dirci l’autrice è fango e solo nel fango si rivolta, a dispetto del lusso esteriore, se perde di vista il suo cuore: a che vale, insomma, per l’uomo guadagnare il mondo intero, se poi perde la sua anima?

Tra le righe 12_11_2011
Il signore delle anime

Stupefacente Némirovsky: pubblicato a puntate nel 1939 sul “Gringoire”, Il signore delle anime sviluppa una storia calata in un quadro ben familiare ai francesi del tempo, storia che però è trasfigurata sino ad assumere un valore universale.

Il protagonista, Dario Asfar, è un levantino, proveniente da una di quelle città e porti commerciali che fungevano da cerniera fra Europa e Asia, crocevia di merci più o meno preziose, patria di stranieri e di ebrei che, fra le due guerre, si riversavano in Europa, e in particolare in Francia, con un afflusso tanto massiccio da risvegliare la xenofobia e il rifiuto del métèque, dell’immigrato. Asfar, che fin nella radice del nome ha nel destino il “viaggio”, viene da una cittadina della Crimea, e, a forza di miseria e sacrifici, è arrivato alla laurea alla medicina. Il romanzo ce lo presenta, giovane medico, con un bambino appena nato e tanti debiti, disperato, pressato, affannato; ma Dario, scaltro e affamato di vita e di successo, anche per garantire una vita agiata a sé, alla fragile moglie Clara, al figlio Daniel, egli diventa un medico alla moda, specialista nella cura delle malattie nervose; o, come dicono i suoi detrattori, un “signore delle anime”, un ciarlatano dalla voce profonda e dall’aria esotica e pacata, che pesca i suoi clienti fra le donne e i nevrotici dell’alta borghesia.

Il romanzo, spietato, è la versione moderna del mito di Faust, “trasposto però nel milieu degli immigrati” (O. Filipponnat- P. Lienhardt), e getta sguardo durissimo sulla borghesia francese, descritta come arida e ignorante, venale e conformista. Del resto, sebbene provenisse dall’alta borghesia russa, l’autrice stessa a Parigi resterà sempre una “meteca”, cui verrà negata, nonostante il successo letterario, la naturalizzazione. La vicenda di Asfar si ispira certo alla reale diffidenza con cui i medici francesi, a partire dal 1930, accusavano i loro colleghi stranieri di pratiche scarsamente deontologiche, e, insieme, alla storia dell’editore della Némirovsky stessa, Bernard Grasset, affllitto da gravi disturbi nervosi e affidato dai familiari dal ’27 al ’31, alle cure del dottor Réné Laforgue, pioniere della psicanalisi; in seguito, con grande scandalo, Grasset accuserà il medico di essere un “macellaio dell’anima”, e i familiari di sequestro di persona.

Così accade anche al giovane Dario, che diventa il medico curante dell’industriale Wardes, tanto ricco quanto infelice e nevrastenico. A partire da questo primo, illustre, cliente, Dario sviluppa il suo metodo, un miscuglio fra psicanalisi e placebo, che gli frutta ricchezza e fama. Ma lo spettro della povertà, i debiti, l’affanno, lo perseguiteranno ancora, tanto che scenderà a compromessi capaci di ucciderlo spiritualmente, finchè non troverà la tranquillità economica definitiva, ma a un prezzo altissimo, la morte morale. Esiste in queste pagine un personaggio positivo, immagine di purezza, integrità morale, sacrificio e abnegazione: è Sylvie Wardes, la prima moglie dell’industriale malato di nervi. Ma questa figura così rasserenante è solo un’immagine cui dedicare un pensiero reverente, ma che resta inattingibile per chi è della pasta del dottor Asfar. Egli infatti, rimasto vedovo, e morto in circostanze poco chiare Wardes, troverà il definitivo appagamento delle sue ambizioni materialistiche sposando la seconda moglie di Wardes, la dura e calcolatrice Elinor, proprio la stessa donna su cui, all’inizio del racconto, aveva praticato una turpe operazione, spinto dalla necessità e dal ricatto della sua padrona di casa.

Il romanzo è imperniato sull’amarissima consapevolezza che il successo mondano è legato alla messa in pratica del principio per cui homo homini lupus e che in tutti gli strati della società, dalle catapecchie sino agli eleganti villini di Neuilly, si consuma una lotta per la sopravvivenza feroce e senza esclusione di colpi. E così, ritroviamo, anche in questi squarci della buona borghesia, la solita azzeccatezza spietata della Némirovsky, a tratti tanto esatta da risultare intollerabilmente crudele, che si sostanzia in un talento speciale per cogliere in poche battute, in un particolare minimo, il carattere e la psicologia di un personaggio. Pensiamo, per esempio, alla sequenza descrittiva della coppia di clienti del night club: “Le due signore erano, evidentemente, le mogli legittime; sembravano ricche, coperte di gioielli com’erano. Li sfoggiavano con la compiaciuta e tranquilla dignità delle donne oneste che si sono guadagnate senza sforzo il lusso in cui vivono, e lo considerano dovuto (…) e che riescono a trasformare perle e diamanti in una materia scialba, solida, seria. Mentre per le amanti ogni gioiello rappresenta il ricordo di una battaglia e di una vittoria, ed è come una decorazione conquistata sul campo, quelle signore portavano i loro monili come la Legion d’onore, indice soltanto di buone relazioni e di procedure burocratiche, ci si appunta sul petto senza alcuna emozione, per mero ossequio delle convenzioni sociali” (p. 182).

Eppure, il cuore del romanzo non sta tanto nel racconto di quest’ascesa mondana, descritta con toni a tratti da feuilleton o da romanzo d’appendice, quale appunto era Il signore delle anime. Il cuore pulsante del racconto sta invece nel rapporto fra il padre, Dario, e il figlio, Daniel: tanto cinico e materialista il primo, ossessionato da un affetto distorto ma vivo per il ragazzo, quanto idealista e intransigente il secondo. Nel finale, amarissimo, addirittura l’unica speranza di Dario di rivedere il figlio, o meglio, di sperare che tutto il suo affanno paterno per il ragazzo non sia andato perso, coincide con la speranza che Daniel, crescendo e sperimentando la durezza della vita, diventi come tutti, come suo padre, non più rigoroso e idealista, ma gretto e attaccato al denaro. Non è terribile odiare i propri genitori, sembra dire Daniel, terribile è sforzarsi, invano, di amarli. Questo è il cruccio del ragazzo: non poter amare come vorrebbe il padre, non poter trovare nel mondo, a partire dalla sua stessa famiglia, il riflesso di quel rigore e di quella severità cui impronta la sua vita interiore. L’umanità, sembra dirci l’autrice, è fango e solo nel fango si rivolta, a dispetto del lusso esteriore, se perde di vista il suo cuore: a che vale, insomma, per l’uomo guadagnare il mondo intero, se poi perde la sua anima?



Irène Némirovsky

Il signore delle anime
Adelphi 2011, pagine 233, euro 18.