«Il relativismo spinge verso le sabbie mobili»
«Se vogliamo comunicare in maniera libera, aperta e fruttuosa con gli altri, dobbiamo avere ben chiaro ciò che siamo». Lo ha detto papa Francesco ai vescovi coreani nel quarto giorno della sua visita nel Paese, richiamando la necessità di avere ben chiara la propria identità.
Il 17 agosto 2014, quarto giorno del suo viaggio in Corea, Papa Francesco ha incontrato prima i vescovi dell'Asia nel santuario di Haemi, dedicato al «martire ignoto», cioè ai tanti martiri cristiani coreani di cui non si conosce il nome, quindi i giovani della Giornata Asiatica della Gioventù. Il Papa ha preso come sua guida un documento fondamentale sull'Asia di san Giovanni Paolo II (1920-2005), l'esortazione apostolica «Ecclesia in Asia» del 1999: l'ha citata spesso - come già aveva fatto in precedenza nel corso del viaggio -, ha invitato a rileggerla e ha mostrato come s'inserisce nel complessivo Magistero di san Giovanni Paolo II, con particolare riferimento alla precedente enciclica «Veritatis splendor» del 1993 e alla critica del relativismo.
La denuncia del relativismo è stata al centro del discorso ai vescovi, uno dei più importanti finora pronunciati nel pontificato, che prende posto in una sequenza organica d'interventi sul tema di san Giovanni Paolo II e di Benedetto XVI, dopo che già nell'esortazione apostolica «Evangelii gaudium» Papa Francesco aveva affermato che il relativismo, con la sua «tremenda superficialità» sulle «questioni morali», non danneggia solo la religione «ma la vita sociale in genere».
L'esortazione del 1999 «Ecclesia in Asia», ha detto il Papa, partiva dall'ovvia constatazione che i cristiani in Asia sono minoranza in regioni dove predominano altre grandi religioni, e indicava la strada del dialogo interreligioso non solo come una scelta irreversibile di tutta la Chiesa, ma come un cammino in cui i cattolici asiatici hanno un ruolo speciale. «Ma - si è chiesto il Pontefice - nell’intraprendere il cammino del dialogo con individui e culture, quale dev’essere il nostro punto di partenza e il punto di riferimento fondamentale che ci guida alla nostra meta? Certamente esso è la nostra identità propria, la nostra identità di cristiani. Non possiamo impegnarci in un vero dialogo se non siamo consapevoli della nostra identità». San Giovanni Paolo II sapeva bene che il contatto con altre grandi religioni, se può essere affascinante e fecondo, espone anche i cattolici asiatici al rischio del sincretismo e del relativismo.
Senza una chiara consapevolezza della nostra identità, non siamo neanche capaci di vero dialogo. È un punto chiave del Magistero di san Giovanni Paolo II - e di Benedetto XVI - che Francesco ha ripreso con forza: «Se vogliamo comunicare in maniera libera, aperta e fruttuosa con gli altri, dobbiamo avere ben chiaro ciò che siamo». Oggi questo non è facile, perché «lo spirito del mondo» ci tenta con «l’abbaglio ingannevole del relativismo, che oscura lo splendore della verità e, scuotendo la terra sotto i nostri piedi, ci spinge verso sabbie mobili, le sabbie mobili della confusione e della disperazione».
Il riferimento all'enciclica «Veritatis splendor» offre a Francesco l'occasione per ribadire che il relativismo non riguarda solo gli altri, i non cattolici, ma «è una tentazione che nel mondo di oggi colpisce anche le comunità cristiane, portando la gente a dimenticare che “al di là di tutto ciò che muta stanno realtà immutabili; esse trovano il loro ultimo fondamento in Cristo, che è sempre lo stesso: ieri, oggi e nei secoli” (Gaudium et spes, 10; cfr Eb 13,8)». E non si tratta solo del relativismo «inteso come un sistema di pensiero»: c'è anche un «relativismo pratico quotidiano che, in maniera quasi impercettibile, indebolisce qualsiasi identità».
Nasce qui una seconda «minaccia alla nostra identità cristiana», che è «la superficialità: la tendenza a giocherellare con le cose di moda, gli aggeggi e le distrazioni, piuttosto che dedicarsi alle cose che realmente contano». In una cultura «che esalta l’effimero e offre numerosi luoghi di evasione e di fuga», la superficialità che nasce dal relativismo «può anche manifestarsi nell’essere affascinati dai programmi pastorali e dalle teorie», che qualche volta tendono a sostituire anziché a favorire «una solida catechesi e una sicura guida spirituale. Senza un radicamento in Cristo, le verità per le quali viviamo finiscono per incrinarsi, la pratica delle virtù diventa formalistica e il dialogo viene ridotto ad una forma di negoziato, o all’accordo sul disaccordo».
Può sembrare una reazione al relativismo, ma è in realtà un suo frutto, anche una terza tentazione, «l’apparente sicurezza di nascondersi dietro risposte facili, frasi fatte, leggi e regolamenti». Quando ripetiamo stancamente formule e regole non siano più «sempre pronti a rispondere a chiunque ci domandi ragione della speranza che è in noi (cfr 1 Pt 3,15)» e a declinare con intelligenza «la nostra identità più profonda» di cristiani traducendola in evangelizzazione e in risposta alle sfide sempre diverse che la società e la storia ci propongono.
C'è infatti «un ulteriore elemento della nostra identità di cristiani: essa è feconda». Senza identità non si può dialogare con l'altro, ma è anche vero che «assieme ad un chiaro senso della nostra propria identità di cristiani, il dialogo autentico richiede anche una capacità di empatia. La sfida che ci si pone è quella di non limitarci al ascoltare le parole che gli altri pronunciano, ma di cogliere la comunicazione non detta delle loro esperienze, speranze e aspirazioni, delle loro difficoltà e di ciò che sta loro più a cuore».
Ancora l'esortazione «Ecclesia in Asia» insegna che il vero dialogo «si fonda sulla logica stessa dell’incarnazione: in Gesù, Dio stesso è diventato uno di noi, ha condiviso la nostra esistenza e ci ha parlato con la nostra lingua». Alle comunità cristiane in Asia, che hanno una speciale vocazione al dialogo interreligioso, «è stata affidata la missione di portare la luce del Vangelo fino ai confini della terra»: anche a quei Paesi - ha detto Francesco - che non hanno relazioni diplomatiche con la Santa Sede, un'allusione alla Corea del Nord e alla Cina. Dialogo con tutti sì, ma senza relativismi o sincretismi, e per portare a ciascuno il Vangelo.
Nel piazzale del Castello di Haemi, il Papa ha poi chiuso nel pomeriggio la Sesta Giornata Asiatica della Gioventù, tornando sul tema della verità in relazione ai martiri. «I martiri della Corea - ha detto -, e innumerevoli altri in tutta l’Asia, hanno consegnato i propri corpi ai persecutori; a noi invece hanno consegnato una testimonianza perenne del fatto che la luce della verità di Cristo scaccia ogni tenebra». Anche ai giovani il Pontefice ha parlato del ruolo particolare e delicato dei cattolici in Asia. «Il Continente asiatico, imbevuto di ricche tradizioni filosofiche e religiose, rimane una grande frontiera per la vostra testimonianza a Cristo, “via, verità e vita” (Gv 14,6)».
Il compito di «portare la sapienza della fede in ogni ambito della vita sociale» richiede anche ai giovani un discernimento del contesto asiatico lontano da ogni relativismo. Voi, ha detto Francesco, «vedete e amate dal di dentro tutto ciò che è bello, nobile e vero nelle vostre culture e tradizioni. Al tempo stesso, come cristiani, sapete anche che il Vangelo ha la forza di purificare, elevare e perfezionare questo patrimonio», il che significa «discernere ciò che è incompatibile con la vostra fede cattolica, ciò che è contrario alla vita di grazia innestata in voi col Battesimo, e quali aspetti della cultura contemporanea sono peccaminosi, corrotti e conducono alla morte».
C'è infatti un aspetto del contesto contemporaneo «che minaccia la speranza, la virtù e l’amore nella vostra vita e nella vostra cultura». C'è anche la tentazione, immersi in una cultura opulenta ma priva di valori, «di allontanare lo straniero, il bisognoso, il povero e chi ha il cuore spezzato», di chiudere le orecchie per non ascoltare «il gemito di tante persone nelle nostre città anonime, la supplica di moltissimi vostri contemporanei, e la preghiera di tutti quei martiri che ancora oggi soffrono persecuzione e morte nel nome di Gesù».
Vivere nella verità e nell'amore, ha detto il Pontefice ai giovani, comporta «il dovere di essere vigilanti per non lasciare che le pressioni, le tentazioni e i nostri peccati o quelli di altri intorpidiscano la nostra sensibilità per la bellezza della santità, per la gioia del Vangelo». «Non è bene - ha concluso il Papa - quando vedo i giovani che dormono ... no! Alzati! Vai avanti!»: servi Gesù «con fedeltà» sull'esempio di Maria, resisti alle tentazioni del relativismo, che nelle proposte che ogni giorno ci raggiungono non è capace di discernere e rifiutare quanto è «incompatibile con la fede cattolica» e finisce pure per chiudere il cuore al grido dei perseguitati e dei disperati che chiedono aiuto e verità.