Il primo e ultimo “ordine” di Peres: lavorate per la pace
Adesso che Shimon Peres ci ha lasciato, dobbiamo soltanto aspettare che compaia sulla scena politica internazionale una personalità laica credibile nella testimonianza e nella ricerca della pace. Pace non solo tra israeliani e palestinesi, per la quale si era adoperato tanto da meritarsi il Nobel, per gli accordi di Oslo.
Adesso che Shimon Peres ci ha lasciato, dobbiamo soltanto aspettare che compaia sulla scena politica internazionale una personalità laica credibile nella testimonianza e nella ricerca della pace. Pace non solo tra israeliani e palestinesi, per la quale si era adoperato tanto da essere insignito dal Nobel – il massimo riconoscimento per gli accordi di Oslo del 1993 – e poi esponendosi come convinto suo assertore in molteplici occasioni; la più importante è stata certamente, l’8 giugno 2014, la partecipazione alla invocazione e preghiera per la pace promossa da papa Francesco nei Giardini Vaticani, evento indimenticabile da me seguito e commentato in diretta per la Radio Vaticana.
Ma pace anche per la regione tutta del Vicino e Medio Oriente sconvolta da una guerra di fatto mondiale, per il coinvolgimento diretto di potenze geograficamente lontane, dominata dal protagonismo ed espansionismo del fondamentalismo islamico, e per le sue ripercussioni e conseguenze nel vivo di tante nazioni, soprattutto europee. Perché il messaggio che Peres lascia a tutti gli uomini è chiaro, lapidario, inequivocabile: «La pace non è facile, richiede sacrifici e compromessi» . Ed è impegnativo per chi ha responsabilità politiche e istituzionali : «Dobbiamo ancora realizzare questa missione di umanità».
La sua visione della pace è quindi impregnata dall’ essenza della vita, dalla coesistenza e comprensione fra gli umani , ben lontana dal dominio di un uomo su un altro suo simile, dalla sete di potere e dalla cultura della morte, componenti invece dell’odio, dello sterminio e della guerra. É stimolante riflettere sulla maturazione di questa testimonianza in uno statista giunto con la famiglia emigrata dalla Bielorussia in un kibbutz della Palestina – siamo a metà degli anni Trenta del secolo scorso, lui nel 1934 aveva undici anni – poi membro dell’Haganah, la compagine che dovette combattere per la creazione dello Stato d’Israele ( voluto dalle Nazioni Unite e avversato dalle nazioni arabe); capo delle poche unità della Marina durante la guerra d’indipendenza; poi capo della Delegazione del ministero della Difesa negli Stati Uniti, e, nel 1953, direttore generale dello stesso ministero responsabile degli acquisti di armi convenzionali, del potenziamento dell’aereonautica e soprattutto del piano segreto per lo sviluppo del nucleare e la dotazione della bomba atomica.
Non solo. Da quando ha responsabilità politiche crescenti nel Partito laburista, da deputato nel 1959 e dieci anni dopo come ministro (assumerà nel tempo i portafogli della Difesa, delle Finanze, degli Esteri ), come leader del partito di governo o dell’opposizione. Infine per tre volte primo ministro, promuoverà o sosterrà i piani difensivi e le operazioni d’Israele, impegnato a fronteggiare le guerre dei Paesi arabi nel 1967 e nel 1973, poi il terrorismo palestinese. Nei governi di coalizione sarà persino a fianco di Ariel Sharon. Darà il massimo sostegno alla recente guerra contro Hamas nella striscia di Gaza.
Ma così come ha avuto una parte importante nei negoziati di pace con l’Egitto maturati nel 1977, terrà sempre stretti rapporti di intesa e collaborazione con il vicino re di Giordania e sarà co-protagonista degli accordi di Oslo del 1993, ottenendo il Nobel insieme al premier Yitzhak Rabin e al leader palestinese Yasser Arafat. E risponderà prontamente domenica 8 giugno 2014 all’iniziativa di preghiera per la pace di papa Francesco, avendo accanto Mahmoud Abbas (Abu Mazen). In quella occasione disse: «Due popoli – gli israeliani e i palestinesi – desiderano ancora ardentemente la pace. Le lacrime delle madri sui loro figli sono ancora incise nei nostri cuori. Noi dobbiamo mettere fine alle grida, alla violenza, al conflitto. Noi tutti abbiamo bisogno di pace. Pace fra eguali». Il mese dopo, il 24 luglio, avrebbe concluso il suo settennale incarico di presidente dello Stato, una corona pienamente meritata perché ritenuto “Padre della Patria”.
A Peres non furono mai risparmiate critiche, da suoi seguaci e da avversari politici, che gli procurarono persino amare sconfitte elettorali. Ma non inficiarono affatto, anzi secondo i suoi estimatori accrebbero, la sua figura di statista. Il suo prestigio internazionale è stato e continuerà a essere altissimo. Non per nulla lascia come suo comandamento, “ordine” ha detto suo figlio Chem, di «lavorare per la pace». Ma «l’eredità di nostro padre, ha aggiunto, è sempre stata il futuro. Guardate al domani, costruite il futuro di Israele con coraggio e saggezza». È proprio vero che il credito, il valore, la statura di un uomo politico si misura nella visione del domani, e di un domani di pace.