Il Pd inizia a lasciarsi il renzismo alle spalle
Comincia una settimana decisiva per il renzismo. Comincia al Lingotto di Torino con la convention di Matteo Renzi e si concluderà con il voto di fiducia al ministro Lott, coinvolto nello scandalo Consip. Ufficialmente il Pd è compatto attorno all'ex premier. In realtà è ormai evidente il tramonto della sua stella.
Comincia una settimana decisiva per il renzismo. Si apre oggi al Lingotto, a Torino, la tre giorni organizzata da Matteo Renzi per lanciare la campagna per le primarie del Pd, che si terranno il 30 aprile. Ufficialmente una parata di ministri uniti attorno all’ex premier ed ex segretario, che punta a riconquistare entrambe le poltrone. In realtà, il fuggi fuggi lontano da Matteo sembra lo sport maggiormente praticato dalla classe dirigente dem, sia nazionale che locale, e il fatto che a chiudere il convegno del Lingotto, domenica sera, sia il Presidente del Consiglio, Paolo Gentiloni, non fuga affatto i sospetti di un crescente isolamento di Renzi.
Dopo la kermesse torinese, gli ambienti renziani vivranno altri giorni concitati, sia perché l’inchiesta Consip sta andando avanti e non è in alcun modo possibile prevederne gli esiti, sia perché mercoledì prossimo al Senato verrà discussa la mozione di sfiducia al ministro dello sport, Luca Lotti, figura chiave del potere renziano, coinvolta in quell’inchiesta.
E le riserve che un nervoso Matteo Renzi continua ad esprimere nei confronti delle scelte di politica economica e fiscale che l’attuale esecutivo ha annunciato sono la riprova della divaricazione crescente tra i renziani e l’asse Palazzo Chigi-Quirinale. Che gli obiettivi delle due fazioni fossero inconciliabili lo si è capito fin da subito. Prima dello scoppio dello scandalo Consip l’ex Presidente del Consiglio sembrava ostinato ad accelerare e puntava segnatamente al voto anticipato a giugno. Poi ha capito che non avrebbe avuto i numeri per sfasciare tutto e che certamente Mattarella si sarebbe messo di traverso e quindi ha cambiato strategia. Ora però si rende conto che per resistere oltre un anno a bordo campo, fuori dalle istituzioni e senza ruoli formalizzati, fino alla scadenza naturale della legislatura, deve mantenersi in equilibrio tra appoggio a un governo presieduto da un esponente del suo partito (e quindi non sconfessabile) e campagna elettorale giocata su proposte innovative. Già nei giorni scorsi, sul taglio al cuneo fiscale e sul possibile aumento dell’Iva, i distinguo renziani rispetto alla linea governativa non erano mancati. L’ex sindaco di Firenze teme che un eccessivo asservimento del governo italiano ai diktat di Bruxelles si traduca in una politica economica impopolare, foriera di un disastro elettorale per il Pd alle prossime politiche. E, puntando a fare il candidato premier, non vuole diventare il parafulmine in uno scenario politico estremamente lacerato e a rischio di deriva populista.
Ma al momento deve fare i conti con le divisioni all’interno del suo partito. Significativa nei giorni scorsi la lettera pubblicata da un quotidiano a firma Sergio Chiamparino (governatore del Piemonte) e Giuseppe Sala (sindaco di Milano), nella quale si invitava Renzi a cambiare strategia. A tutti quell’iniziativa è apparsa come un tentativo dei due di smarcarsi da un renzismo declinante e di accreditarsi in prospettiva come nuovi leader di quell’area politica. Senza contare che sul territorio, un po’ in tutte le regioni, moltissimi eletti del Partito democratico si stanno avvicinando agli altri due candidati alla segreteria, il ministro Andrea Orlando e il governatore della Puglia, Michele Emiliano. Nessuno dei due ha chance di essere eletto al primo turno, ma la somma dei voti dei due potrebbe impedire a Renzi di passare al primo turno e costringerlo ad un insidioso ballottaggio. Il secondo turno, però, non passerebbe dai gazebo bensì dall’assemblea nazionale, dove i delegati renziani sono la stragrande maggioranza. In ogni caso, un segretario eletto al secondo turno non avrebbe quella legittimazione popolare che Renzi insegue e sarebbe costretto a trattare da una posizione di debolezza sulla composizione delle liste per le prossime politiche.
Anche per quanto riguarda la data del voto potrebbero esserci spiacevoli sorprese per l’ex premier. Lui scalpita, ma esigenze di risparmio potrebbero spingere verso l’accorpamento a maggio 2018 di elezioni politiche ed elezioni regionali (si voterà in regioni importanti come Lazio, Lombardia, Friuli e altre). Dunque, il prolungato logorìo della sua figura, sempre meno percepita come “nuova” dall’elettorato, potrebbe costargli caro.
Ma l’insidia più vicina per il renzismo è costituita dal voto di sfiducia al ministro Lotti, fissato al Senato per mercoledì prossimo. Forza Italia, divisa tra giustizialisti e garantisti, appare intenzionata ad uscire dall’aula, onde evitare di spaccarsi. Ciò dovrebbe consentire a Lotti di restare in sella, non senza qualche mugugno da parte di alcuni esponenti dem (sia Emiliano che Cuperlo nei giorni scorsi gli hanno chiesto di fare un passo indietro), memori delle dimissioni di Lupi, De Girolamo e Guidi per sospetti e azioni forse meno gravi di quelle che vengono imputate all’attuale Ministro dello sport. Ma nel frattempo Gaetano Quagliariello a Palazzo Madama ha presentato un’altra mozione per chiedere l’azzeramento del vertice Consip. Su di essa potrebbe coagularsi una maggioranza trasversale più ampia e a quel punto per i fedelissimi di Renzi sarebbero davvero guai. Vacillerebbe un sistema di potere che già ora fa fatica a parare i colpi dell’opposizione politica e di una evidente offensiva mediatico-giudiziaria.