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ANNIVERSARIO

Il Pci è morto lo statalismo vive

Vent'anni fa veniva sancita la fine del Partito comunista, nato 70 anni prima. Una proposta fiscale di questi giorni dà l'occasione per verificarne l'eredità.

Attualità 03_02_2011
pci veltroni occhetto
Il dibattito sulla patrimoniale (o su qualcosa che comunque le assomiglia) rilanciato in questi giorni fa riemergere quella malcelata ostilità nei confronti della proprietà che è un tratto caratteristico della storia contemporanea dell’Italia.

Non sembra perciò una coincidenza che questo accada proprio nei giorni in cui ricorre il ventesimo anniversario della fine del Partito comunista italiano, nato a Livorno 90 anni fa, nel 1921, e appunto consegnato alla storia da Achille Occhetto il 3 febbraio del 1991. Perché soltanto alla luce di quanto ha fatto il Pci per seminare un pregiudizio negativo nei confronti della proprietà è comprensibile la proposta di “toccare” un qualcosa di giustamente ritenuto importante da ogni famiglia italiana, ovvero la casa di proprietà.

E in effetti, a vent’anni dalla sua morte, l’ideologia diffusa da tanti decenni permane in diverse manifestazioni di pensiero, tra cui appunto quella relativa alla proprietà.
Il Pci nacque a Livorno nel 1921 da una scissione del Partito socialista, a sua volta nato nel 1892. L’ideologia egualitarista viene così seminata nel corpo sociale da oltre un secolo e per tutto il Novecento. Essa induce a guardare con sospetto la ricchezza, di cui la proprietà sarebbe il segno e la manifestazione esplicita. Essa nasce in un contesto sociale drammatico, seguito alla rivoluzione industriale e allo smembramento del sistema dei corpi intermedi, con milioni di lavoratori di ogni età sfruttati da un esiguo numero di datori di lavoro.

L’invidia sociale seminata dal socialismo emerge come forza politica in questa stagione, sfruttando una situazione di reale ingiustizia e provocando la lotta fra le classi. Il Pci, soprattutto il “partito nuovo” guidato da Palmiro Togliatti dopo il suo ritorno dall’Urss nel 1944, si fa carico di tradurre in lotta politica questa ideologia di classe. Lo fa in un modo appunto “nuovo”, privilegiando la lotta culturale volta a cambiare il senso comune degli italiani, con molta gradualità e cercando di non urtare il comune sentire cristiano della gran parte della popolazione. Questo lavoro culturale promosso dal Pci penetra e si estende oltre i militanti e gli iscritti al partito. E rimane anche dopo il suo tramonto.

Accanto a una certa avversione culturale alla ricchezza e alla proprietà, cresce anche l’idea che tocchi allo Stato intervenire e sostituire la società risolvendo tutti i problemi. Attenzione: la dottrina sociale della Chiesa e il buon senso non escludono a priori l’intervento dello Stato. Davanti alla drammaticità della questione operaia, nella seconda metà dell’800, la Chiesa affermò che certi problemi, fuori dalla portata dei corpi sociali, poteva risolverli solo lo Stato: fu questa la logica da cui nacque la Rerum novarum, nel 1891.
Ma nel corso del 900 si diffonde un’altra visione di Stato, che si sostituisce alla società organizzando quest’ultima all’interno di strutture appunto pubbliche. E pubblico diventa solo quello proposto dallo Stato.

Il Pci è il principale portatore di questa mentalità nel secondo dopoguerra, ma non erano molto diverse le concezioni dello Stato proposte dal regime fascista e da certo cattolicesimo poco attento alla distinzione e alla valorizzazione della società, che nasce in Università Cattolica negli anni conclusivi del regime e diventa, dopo la fine della Seconda guerra mondiale, una delle proposte politiche della sinistra dc, quella dei “professorini”, guidata da Giuseppe Dossetti.
Così la scuola di Stato, le imprese di Stato, la Tv di Stato e si potrebbero fare tanti altri esempi. E soprattutto l’idea che lo Stato debba risolvere tutti i problemi, anche quelli creati dallo Stato stesso, come il debito pubblico, “prelevando” come con un bancomat direttamente dal corpo sociale. La patrimoniale, appunto.

Provvidenzialmente sono accadute diverse cose nuove in questi ultimi vent’anni e fra queste un sensibile incremento di consapevolezza culturale del valore assoluto del principio di sussidiarietà, insegnato dalla dottrina sociale della Chiesa e dal buon senso. Ma evidentemente deve essere rimasto uno “zoccolo duro” di popolazione (non so quanto esteso) che guarda solo allo Stato per risolvere i problemi, invece che auspicare un rilancio della società facendo diminuire i ceppi che le impediscono di operare.