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AFRICA

Il mondo reale non è un #reality

Campagne di sensibilizzazione, cinguettii di Twitter, tutti caratterizzati dall'ormai onnipresente hashtag (#) per lanciare un messaggio condiviso. Da Boko Haram al guerrigliero Kony sono tante le nuove mode. E non servono a nulla.

Esteri 21_05_2014
#Bring Back Our Girls (Nigeria)

Da qualche giorno la triste storia delle studentesse rapite in Nigeria dai jihadisti Boko Haram è stata quasi eclissata dalla tragedia di Meriam, la mamma cristiana che in Sudan è stata condannata a 100 frustate per adulterio e all’impiccagione per apostasia. I twitter per la liberazione delle prime si sono rarefatti man mano che il popolo del web, attratto da questa nuova vicenda, si riversava sugli appelli e sulle raccolte di firme in difesa di Meriam. Magari, domani, sarà un’altra ingiustizia ancora a mobilitare il “popolo della rete”, spostandone altrove l’attenzione: il quale popolo difficilmente torna indietro a verificare l’esito delle proprie campagne umanitarie e, se si da il caso, a riproporle, sempre incalzato come è da nuove emozioni, da nuove imprese da compiere e, forse, anche propenso a considerare quasi alla stregua di un reality il contesto in cui i drammi si verificano, risolvibili quindi inondando la rete di “mi piace”, “condivido” e “hashtag”, mentre invece firme, twitter e altre iniziative (video, concerti…) sono solo, nel migliore dei casi, un mezzo di pressione, e neanche direttamente sui responsabili di violenze e discriminazioni (che di solito dell’opinione pubblica assai poco si curano, specie se straniera), ma sui governi dei paesi democratici e liberi affinché sappiano che da loro la gente si aspetta, posto che ne siano in grado, provvedimenti tempestivi ed efficaci.

I mass media spesso si comportano allo stesso modo con l’aggravante di fornire informazioni non sempre esatte e di assecondare in qualche misura l’illusione di svolte positive grazie ai “cinguettii”, ai “click” o alle canzoni cantate tutti in coro. 

Qualcuno forse ricorderà la campagna planetaria, popolare, lanciata trionfalmente nel 2012 dalla Ong statunitense Invisible Children con l’aiuto di celebri personaggi del mondo dello spettacolo, intitolata Stop Kony e intesa a liberare l’Uganda dal Lord’s Resistance Army, Lra, il movimento armato fondato da Joseph Kony, che per quasi 20 anni ha infierito nel modo più crudele sulle popolazioni Acholi che vivono nel nord Uganda. L’idea, in questo caso, era che, sensibilizzando milioni di persone comuni tramite un video che illustrasse gli orrori commessi dall’Lra, queste avrebbero con una pressione dal basso indotto i leader del mondo occidentale a catturare Kony e neutralizzarne il movimento. Per alcune settimane il video Stop Kony ha fatto il giro del mondo, effettivamente visto, soprattutto grazie al web, da decine di milioni di persone. In realtà conteneva un errore non da poco: nel 2012, infatti, l’Lra ormai da sei anni si era quasi interamente trasferito nella Repubblica Democratica del Congo e le sue vittime non erano più gli ugandesi, bensì gli abitanti del Congo orientale e dei vicini Sudan e Repubblica Centrafricana. Si può sorvolare su questo errore: in sostanza, da qualche parte qualcuno stava male, anche se non si trattava più dei bambini ugandesi. Si può anche passar sopra al fatto che catturare Kony sarebbe compito dei leader dei paesi africani coinvolti più che di quelli dei paesi occidentali. Quello che davvero conta, però, è che, a distanza di due anni, l’Lra continua imperterrito a razziare, uccidere, violentare, rapire bambini per farne guerriglieri e schiavi seminando terrore e miseria in tre stati.

Quanto alle due campagne recenti, quella per Meriam secondo i mass media italiani – ma non quelli di altri paesi – avrebbe dato esiti immediati. Affastellando le informazioni, quasi tutti i mezzi di informazione hanno infatti pubblicato la notizia che la condanna a morte era stata revocata (“esclusa la pena di morte” era il titolo di un articolo sul wito web del quotidiano “la Repubblica” il 16 maggio) quando invece è solo previsto in base alla sentenza che venga eseguita due anni dopo la nascita del figlio di cui Meriam è incinta e nel frattempo i legali della donna ricorreranno in appello.

Anche la vicenda delle studentesse rapite sarebbe a una svolta positiva, sempre secondo i mass media italiani che scrivono tutti, a partire dal 19 maggio, che Boko Haram “è pronto” a liberare almeno 100 ragazze. In realtà i jihadisti già avevano offerto una parte delle ragazze in cambio della liberazione dei loro compagni in carcere, inclusi diversi capi. La svolta sta piuttosto nel fatto che, rendendosi conto che il governo della Nigeria non può permettersi di accettare una simile richiesta, sarebbero disposti a restituire gradualmente circa 100 studentesse in cambio dei numerosi parenti di terroristi Boko Haram arrestati nel corso degli anni. In compenso, per niente  intimiditi e anzi lusingati dalla eco internazionale che ha avuto il sequestro delle studentesse, non solo hanno rapito altre otto adolescenti, ma hanno schernito le autorità nigeriane e il mondo annunciando di voler rapire 200 studenti per sposarli con le giovani prigioniere. La minaccia, per il momento non ancora attuata, è contenuta in due lettere datate 14 maggio, rivenute in un'’aula e in una stanza del personale di una scuola di Makurdi, nello stato di Benue. Nel frattempo, il 5 maggio i jihadisti hanno assaltato il villaggio di Gamborou Ngala, nello stato di Borno, uccidendo 300 persone. Tra il 14 e il 15 maggio hanno attaccato, ma senza fare vittime, altri villaggi sempre nel Borno e le scuole elementari di due villaggi del Bauchi. Il 18 maggio hanno piazzato un'’autobomba in una strada frequentata di Kano, capitale dell'’omonimo stato: l’'esplosione ha ucciso tre uomini e una bambina di 12 anni. Il 21 maggio un altro gravissimo attentato ha colpito Jos, la capitale dello stato di Plateau. Due, forse tre bombe sono esplose a poca distanza una dall'’altra nel cuore della città: 118 i morti, secondo un primo bilancio, ma le vittime sarebbero almeno 200 stando alle notizie più recenti.

Il 18 il presidente della Nigeria Goodluck Jonathan era atteso a Chibok, la città dove sono state rapite le studentesse, ma per motivi di sicurezza la visita è stata cancellata.