Il mito delle chiese domestiche
L’archeologia non fornisce alcuna prova dell’esistenza delle presunte “chiese domestiche” e anzi sembra smentirle. Essa – come nel caso di Megiddo e anche, a ben vedere, di Dura Europos – supporta l’esistenza di luoghi adibiti esclusivamente al culto.

Il ritrovamento dei mosaici di Megiddo, di cui abbiamo parlato nel precedente articolo, è un documento archeologico che mette in crisi la tesi che, nel cristianesimo dei primi tre secoli, l’altare non fosse altro che una tavola comune, utilizzata per il rito e poi nuovamente ricondotta ai suoi usi profani. Ma questi mosaici mostrano anche piuttosto chiaramente che, intorno alla metà del III secolo, si ha testimonianza di un vero e proprio luogo di culto dei cristiani; la presenza di mosaici, di un altare, della raffigurazione dei pesci che è una confessione della divinità del Signore Gesù (ricordiamo che le lettere che formano la parola “pesce” in greco – ΙΧΘΥΣ – sono l’acronimo di “Gesù Cristo, Figlio di Dio, Salvatore”) confermano che si tratta di un vero e proprio luogo sacro, nel quale i cristiani celebravano evidentemente l’Eucaristia.
In effetti, l’archeologia non solo non fornisce alcuna prova dell’esistenza di queste presunte “chiese domestiche”, ma, nel caso di Megiddo, sembra smentirle. I sostenitori delle “chiese domestiche” sono soliti esibire, a sostegno della propria tesi, la scoperta del complesso di Dura Europos, in Siria, sito scavato tra gli anni 20 e 30 del Novecento, risalente al 232/257 dopo Cristo [nella foto, rovine di una chiesa; da www.worldhistory.org]. Ma dopo gli entusiasmi iniziali, gli studiosi iniziarono a divenire più cauti. Da alcuni dettagli dei ritrovamenti (come, per esempio, la dismissione della latrina e la chiusura della cisterna) si iniziò a comprendere che la struttura, dapprima utilizzata a scopo abitativo, fu completamente convertita ad una destinazione cultuale. L’edificio ritrovato non era adibito ad un uso “misto”, ma esclusivamente sacro. Quello che l’archeologia supporta non è pertanto l’esistenza di presunte chiese domestiche, ossia luoghi ad uso sia sacro che profano, bensì di luoghi adibiti esclusivamente al culto, che probabilmente erano stati prima di uso profano, ma che in seguito divennero luoghi nei quali la comunità cristiana si ritrovava per la celebrazione dell’Eucaristia.
Le prime chiese delle comunità cristiane erano l’esito della loro conversione da luogo profano a luogo sacro, e questa mutazione le sottraeva definitivamente alla loro dimensione privata per renderle al servizio della comunità orante, riunita attorno al proprio vescovo. L’idea che l’Eucaristia, nei primi secoli, venisse celebrata nelle abitazioni private, in piccoli, molteplici gruppi, non può contare su alcun supporto archeologico.
Le prove schiaccianti dell’esistenza di queste “chiese domestiche” sembrerebbero però provenire da testi scritti, in particolare dagli Atti degli Apostoli e da quattro lettere di San Paolo. Vediamo questi passi.
1. «Ogni giorno tutti insieme frequentavano il tempio e spezzavano il pane a casa, prendendo i pasti con letizia e semplicità di cuore, lodando Dio e godendo la simpatia di tutto il popolo» (At 2, 46-47). Così tradotto, il testo potrebbe lasciar intendere che i cristiani di Gerusalemme celebrassero l’Eucaristia nelle loro case, nel contesto di pasti comuni. Ma l’espressione κατ’ οῖκον (kat’oikon) significa semplicemente “in una casa”, “in una abitazione”; nel testo, non c’è alcun riferimento al fatto che ciascuno ritornasse nella propria casa, o che i cristiani si ritrovassero in domicili privati (al plurale) per l’Eucaristia. Più verosimilmente, la comunità di Gerusalemme si riuniva dapprima al tempio e poi in una abitazione sufficientemente grande da contenere i fedeli, per celebrare l’Eucaristia, seguita da una condivisione fraterna del cibo. Nulla permette di affermare che si sarebbe trattato di una casa adibita a dimora familiare, utilizzata anche per il culto.
2. «Salutate Prisca e Aquila, miei collaboratori in Cristo Gesù; [...] salutate anche la comunità che si riunisce nella loro casa» (Rm 16, 3.5). In questo passo della Lettera ai Romani, ritorna l’espressione κατ’ οῖκον, ma questa volta si aggiunge la parola ἐκκλησία (ekklesia). Ora, quest’ultimo termine ha un significato primario diverso da quello che noi diamo quando parliamo di “chiesa”. Ἐκκλησία significa semplicemente assemblea, congregazione; il suo utilizzo si riferisce pertanto ad un gruppo riunito in un luogo, ma senza alcuna specificazione delle ragioni per cui è riunito. Dedurre quindi che si tratti di una comunità che si ritrovava nella casa di Priscilla e Aquila per celebrarvi l’Eucaristia è andare decisamente troppo in là di quanto il testo consenta; negli Atti degli Apostoli troviamo l’utilizzo di questo termine per indicare gli israeliti radunati nel deserto (cf. 7, 38), oppure un’assemblea civile (cf. 19, 39), senza alcun riferimento ad una congregazione liturgica. È pur vero che San Paolo utilizza il termine anche in riferimento alla Chiesa, ma non risulta mai associato alla parola casa/abitazione.
L’altro passo in cui ritroviamo la stessa espressione è 1Cor 16, 19: «Le comunità dell'Asia vi salutano. Vi salutano molto nel Signore Aquila e Prisca, con la comunità che si raduna nella loro casa». L’accostamento anche in questo caso di ἐκκλησία con κατ’ οῖκον e il pronome possessivo indica che si tratta di un gruppo di persone radunate nella casa di Aquila e Priscilla: nient’altro. È lecito domandarsi a cosa sia dovuta questa riunione, ma utilizzare questi testi come prova delle “chiese domestiche” è un’evidente forzatura.
Monsignor Stefan Heid, nella monografia già citata negli articoli precedenti (vedi qui e qui), suggerisce un’ipotesi interessante. Gli unici passi paolini che si riferirebbero alla “chiesa domestica”, ossia che accostano “casa” ad “assemblea” – oltre ai due già riportati, si vedano anche Col 4, 15, «Salutate i fratelli che sono a Laodicea, Ninfa e la chiesa che è in casa sua» e Fil 1, 1-2, «Paolo, prigioniero di Cristo Gesù, e il fratello Timoteo, al caro Filemone, nostro collaboratore, […] e alla chiesa che si riunisce in casa tua» – si trovano all’interno di una lista di saluti. In tutti questi passi, l’Apostolo si rivolge ad alcuni suoi collaboratori e quindi alla “chiesa” nella loro casa. Il che potrebbe suggerire che le case di questi collaboratori, come Aquila e Priscilla o Filemone, fossero dei centri di missione, case messe a disposizione per i diversi collaboratori dell’Apostolo nella sua missione tra i gentili.
L’ipotesi sarebbe perfettamente compatibile con il significato della parola ἐκκλησία associato ad una dimora privata, e calzante con il contesto di saluti inviati mediante una lettera che sarebbe poi stata letta all’intera comunità cristiana locale. D’altra parte, nulla di più sensato che l’Apostolo formasse queste comunità di collaboratori nelle città da lui raggiunte, che necessitavano di proprietari sufficientemente abbienti da poter mettere a disposizione una casa ampia, del personale di servizio e dei beni.
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