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TENSIONE

Il lungo incubo della Turchia

La Turchia ha subito una raffica di colpi improvvisi e stordenti in appena due giorni ed è tuttora destabilizzata. Un blackout, il rapimento e l'omicidio di un magistrato, un azione simbolica contro l'Akp e un fallito attentato suicida. Oltre a misteriosi allarmi-bomba. Tutto è collegato?

Esteri 03_04_2015
Turchia, i parenti del magistrato assassinato

La Turchia ha subito una raffica di colpi improvvisi e stordenti ed è tuttora destabilizzata. Le ipotesi su quel che è successo sono tantissime e corrono come girandole impazzite sul web, quindi non ci resta che fare un elenco di fatti.

Alle 10:30 di mattina del 31 marzo, un blackout ha letteralmente paralizzato il paese, inclusa la capitale Ankara e Istanbul. Fermi tutti i mezzi pubblici, bloccate le connessioni internet, muti i telefoni, chiuse tante aziende e uffici. In mezzo a quel caos, le informazioni sono diventate subito allarmanti. Il premier Ahmet Davutoglu non ha escluso un attentato. Anche perché si è trattato del blackout più massiccio degli ultimi 15 anni.

In mezzo al caos per le strade e al panico che iniziava a diffondersi, il procuratore Mehmet Selim Kiraz era ancora nel suo ufficio del tribunale di Istanbul, quando un commando di terroristi, proprio approfittando della confusione causata dal blackout, ha fatto irruzione, arrivando indisturbata fino al sesto piano. Il magistrato, titolare dell’inchiesta sulla morte di Berkin Elvan, il ragazzo morto negli scontri di Gezi Park del 2013 (le manifestazioni contro Erdogan), è stato tenuto in ostaggio per quasi tutto il giorno, finché le teste di cuoio turco non hanno fatto irruzione nella sede del tribunale. L’ostaggio è però rimasto ferito gravemente nel corso dell’azione e poco dopo è morto in ospedale. La rivendicazione del sequestro è chiara, il gruppo di terroristi ha subito rivendicato l’attentato ed esposto le sue bandiere: si tratta del Dhkp-C, un piccolo partito armato comunista che ha dichiarato guerra al governo centrale, sostiene la causa dei curdi e vuole rovinare il processo di pace fra Ankara e gli indipendentisti.

Istanbul non aveva ancora elaborato il lutto e lo spavento che subito veniva scossa da altre brutte notizie. Una sede dell’Akp, il partito islamico del presidente Erdogan e del premier Davutoglu, veniva presa d’assalto da un singolo terrorista armato, la mattina del 1 aprile. L’uomo ha minacciato di uccidere tutti, se il palazzo non fosse stato evacuato subito. Poi ha rotto due finestre e ha esposto la sua bandiera: una variante mai vista del vessillo turco, rosso con la mezzaluna e una scimitarra. Tuttora l’indagine non ha accertato chi fosse quel singolo attentatore, attualmente in arresto, né a quale gruppo appartenesse (o se fosse un cane sciolto, o un folle).

Poche ore dopo, sempre a Istanbul, un uomo e una donna si sono avvicinati alla questura centrale della città, uno dei luoghi più protetti della Turchia. L’uomo era armato di fucile, la donna aveva una cintura esplosiva ed era pronta a farsi esplodere. La polizia ha colpito per prima: ha ucciso subito la donna e arrestato l’uomo.

Mentre tutto questo avveniva e anche prima del blackout, si susseguivano gli allarmi (falsi, in questo caso) di bombe su aerei della Turkish Airlines. Ieri pomeriggio, un aereo diretto a Lisbona è stato fatto rientrare subito dopo che è stato segnalato un ordigno a bordo. Ed è il terzo caso in quattro giorni.

Obiettivamente anche un paese abituato al terrorismo e alla guerriglia sul proprio territorio finirebbe nel panico, dopo una raffica così destabilizzante di fatti misteriosi. L’unica rivendicazione, appunto, è quella di un piccolo partito comunista, quello che (fra Isis, guerra siriana, Iran e curdi) era l’ultimo dei pensieri per il governo di Ankara. Tanto è vero che uno dei membri del commando era già “attenzionato” dalla polizia, ma evidentemente era ancora libero di viaggiare e armarsi. Tutto il resto rimane avvolto nelle nebbie del mistero. Gli allarmi sulle linee aeree servono solo a creare panico. E sul blackout si discute ancora dopo due giorni se è stato un attentato a provocarlo, piuttosto che un guasto tecnico. Messi tutti assieme questi fatti sembrerebbero diretti ed eseguiti da un'unica mente, anche perché il loro coordinamento nell’arco di appena 48 sarebbe una coincidenza impressionante. Un’altra ipotesi è che il blackout sia dovuto a un incidente e quel che è seguito è stata una “notte delle streghe”: chiunque volesse destabilizzare la Turchia, nel suo piccolo o piccolissimo, ci ha provato.

Una teoria cospirativa in voga in tutto il mondo descrive la destabilizzazione come un prodotto del governo stesso, come una “strategia della tensione”. Se questi teorici del complotto avessero ragione (e in Turchia l'ipotesi non è da scartare a priori), Erdogan sarebbe la mente che è dietro a questa destabilizzazione e ne trarrebbe vantaggio il prossimo 7 giugno, quando ci saranno le prossime elezioni. A rafforzare questa teoria è, appunto, la natura misteriosa degli attentatori, tranne il gruppo Dhkp-C, l’unico che ha lasciato la sua firma, ma anche l’unico che è ritenuto troppo piccolo per provocare un’azione destabilizzante di vasta portata. Dunque potrebbe essere stato usato come “mano d’opera”. A ulteriore rafforzamento di questa teoria del complotto c’è tutto il comportamento passato del governo islamico di Erdogan, che ha gradualmente represso sia la libertà di stampa che le istituzioni più laiche (esercito e magistratura) del paese e che, con un nuova legge appena varata, conferisce maggiori poteri alla polizia a scapito dei magistrati. L’unica vittima di questi torbidi di fine marzo, un magistrato, era un “nemico” di Erdogan e stava conducendo un indagine, sulla vittima di Gezi Park, che avrebbe potuto mettere il presidente in cattiva luce e delegittimato la polizia.

La tesi degli islamici vicini a Erdogan è invece rovesciata e anch’essa si basa sulla storia recente turca: nel paese dei tre golpe militari in meno di mezzo secolo, anche questo sarebbe un tentativo dei militari di intimidire un governo islamico. In questo caso Erdogan, che ha fatto piazza pulita dei vertici militari grazie al maxi processo Ergenekon (che avrebbe prevenuto un altro presunto golpe), potrebbe aver ricevuto un forte avvertimento, da parte di nemici interni che dicono “siamo ancora qui, ti teniamo ancora d’occhio”.

Ma l’elenco delle possibili matrici è lungo. Perché lo stesso fronte islamico non è affatto compatto, ma spaccato in due: negli Usa opera e predica Fethullah Gulen, più radicale di Erdogan e suo acerrimo nemico politico. Lo scorso dicembre, con una retata impressionante, 27 giornalisti suoi sostenitori sono stati arrestati dalla polizia. Ma poi ci sono anche i curdi, ci sono gli islamisti dell’Isis, c’è la Siria alle porte (e il governo di Ankara ha praticamente dichiarato guerra al regime di Assad). Insomma i sospetti sono tantissimi. Sempre che si tratti di un’azione coordinata, di una vera strategia della tensione. Perché potrebbero essere solo coincidenze, anche se pochi, in Turchia, ci credono.