ITALIA
Il governo Monti e le liberalizzazioni dirigiste
Le norme che hanno provocato
la dura reazione delle banche non sono improntate alla liberalizzazione,
ma al suo esatto contrario.
Editoriali
05_03_2012
Giovedì, dopo l’approvazione al Senato del decreto sulle liberalizzazioni, il presidente e i vertici dell’Abi, l’associazione delle banche italiane, si sono dimessi in segno di protesta. La decisione è stata presa per contestare l’articolo 27 bis del maxiemendamento al decreto liberalizzazioni, che azzera le commissioni per la concessione delle linee di credito a tutte le banche, senza distinzioni fra chi si adegua alle norme sulla trasparenza e chi non lo fa. Questo articolo è stato peraltro la goccia che ha fatto traboccare il vaso dopo altre norme difficili da digerire come quella che impone agli istituti di credito di offrire conti correnti a costo zero ai pensionati che hanno una rendita inferiore ai 1.500 euro o come il divieto di legare la concessione di un mutuo all’apertura di un conto corrente.
Si tratta di provvedimenti che hanno indubbiamente un oggettivo valore sociale ed economico: mirano infatti, almeno in teoria, a facilitare l’accesso al credito delle imprese e l’utilizzo dei servizi bancari da parte dei meno abbienti.
Ma ci sono due punti che non si possono dimenticare. Il primo è che almeno in questi casi non si può certo parlare di liberalizzazioni, anzi siamo di fronte all’esatto contrario: cioè all’imposizione di norme di comportamento ad operatori privati che si trovano così di fronte ad ulteriori vincoli e non certo ad una facilitazione della loro attività. Il secondo è che gli oneri per raggiungere fini pur socialmente corretti vengono scaricati su di un settore che dovrebbe invece essere guidato dalle regole del libero mercato: in pratica imponendo di offrire dei servizi gratuiti si fanno pagare alle banche i costi delle opere buone che il Governo intende fare.
E’ questa una logica quanto meno discutibile. In sé e per sé un Governo potrebbe avere più di una ragione per chiedere a un settore economico, così come a un gruppo sociale o a una categoria professionale di svolgere alcune attività sociali sopportandone i costi, magari in cambio di agevolazioni di altro tipo. E’ la logica delle concessioni edilizie dei Comuni: un costruttore ottiene il permesso a realizzare un edificio, ma in cambio come oneri di urbanizzazione, può impegnarsi a dare parte degli appartamenti in affitto agevolato a categorie protette.
Non è quindi del tutto illogico che anche all’interno di un’economia di libero mercato si possa chiedere a settori di pubblica utilità di addossarsi almeno in parte l’onere di iniziative sociali cercando tuttavia di offrire adeguate contropartite per permettere di compensare i ricavi che vengono a mancare. Ma nelle ultime vicende di contropartite reali alle banche non se ne sono viste e qualche ragione per protestare quindi certamente l’avevano.
Da un punto di vista politico quanto è avvenuto è almeno servito a dimostrare che il Governo Monti non può essere certamente considerato un Governo dei banchieri o dei “poteri forti” come era stato frettolosamente definito. Ma non è certo questo il problema principale che è invece costituito dal fatto che di vere liberalizzazioni nel decreto approvato dal Senato ce ne sono veramente poche.
C’è qualcosa sulle farmacie, c’è l’annuncio di una futura separazione della proprietà tra chi trasporta e chi vende il gas (in pratica tra Eni e Snam), c’è l’istituzione di una Authority per i trasporti che dovrà dare le direttive ai Comuni sulle licenze dei taxi, ci sono grandi facilitazioni per la creazione di società da parte dei giovani sotto i 35 anni. Tutte cose buone, ma con piccoli passi e con molta cautela. E peraltro non si vede come mai con quale logica se non quella della fretta, sia entrata in questo decreto la norma che obbliga a pagare l’Imu (la nuova imposta comunale che sostituirà l’Ici) le attività commerciali della Chiesa sugli immobili in cui questa attività viene svolta. Può essere giusto, ma non si tratta certo di una liberalizzazione.
Le vere liberalizzazioni sarebbero l’abolizione di norme amministrative, di concessioni, di vincoli, di oneri accessori e impropri. Per esempio? L’abolizione delle province, l’abolizione degli ordini professionali inutili (come quello dei giornalisti), l’abolizione di procedure, concessioni e atti amministrativi che hanno il solo scopo di succhiare qualche imposta erariale. Ma in Italia abolire qualcosa, soprattutto se collegato a seggiole e poltrone, è terribilmente difficile. Anche per un Governo tecnico di buona volontà.