Il giustizialismo di Davigo non ha pietà neanche dei suicidi
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Le parole inquietanti dell'ex pm Davigo riaprono la ferita di Tangentopoli e della carcerazione preventiva. Il valore della testimonianza processuale non può mai essere superiore a quello della vita umana.
Abbiamo fatto il callo alle uscite scomposte e fuori luogo di Piercamillo Davigo. Credevamo che la più cinica delle sue fosse quella sugli innocenti, che per lui non esistono, in quanto «un innocente è sempre un colpevole che l’ha fatta franca». L’altro giorno, però, l’ex pm di Mani pulite ne ha sparata un’altra ancora più sensazionale. Durante la sua partecipazione al podcast "Muschio Selvaggio", condotto da Fedez e Davide Marra, Davigo ha espresso il suo dispiacere per i suicidi di imputati, ma solo perché se si ammazzano non possono più parlare e aiutare le indagini con le loro rivelazioni. Ecco le sue agghiaccianti parole: «Ma certo che dispiace. Prima di tutto, se uno decide di suicidarsi lo perdi come fonte di informazione». Davigo sembra sottolineare l'importanza di ottenere informazioni dirette dagli imputati attraverso il processo legale, evidenziando la perdita di questa possibilità quando gli imputati decidono di porre fine alla propria vita.
Visto che il podcast verteva su Tangentopoli, i suicidi ai quali si riferiva l’ex pm sono quelli di Gabriele Cagliari e Raul Gardini. Il primo - è bene ricordarlo - denunciò nelle sue lettere dal carcere i metodi “sbrigativi” dei magistrati della Procura di Milano, che trattenevano in cella gli imputati, col pretesto di dover applicare la misura cautelare per impedire la fuga o la reiterazione del reato o l’occultamento delle prove, ma in realtà per costringerli a parlare, a fare le rivelazioni che loro volevano che facessero. Un abuso ignobile della carcerazione preventiva, che è alla base di quei suicidi (Cagliari non resse all’umiliazione in carcere e si tolse la vita, così come se la tolse Gardini, che stava per essere interrogato e probabilmente arrestato).
Le dichiarazioni di Davigo hanno scosso il mondo giudiziario e quello politico e sollevato questioni etiche e morali sul valore dell’informazione rispetto alla vita umana. Il valore della testimonianza diretta di un arrestato o di un indagato non può mai essere superiore a quello della vita umana. La ricerca della verità e della giustizia è fondamentale per un uomo di legge, ma rammaricarsi per un suicidio solo perché priva la giustizia di una fonte è davvero raccapricciante.
Non hanno mancato di sottolinearlo uomini di diritto e rappresentanti politici. «Sono affermazioni e posizioni che lasciano davvero stupefatti», commenta il presidente dell'Unione delle Camere penali, Francesco Petrelli. «Non basta certo contrastare i fenomeni criminosi più gravi. La dignità, l'integrità, la vita delle persone sono un bene che deve evidentemente prevalere su qualsiasi altra necessità di accertamento, altrimenti si ha un'idea barbara del processo e del ruolo della magistratura», aggiunge Petrelli. Secondo Pierantonio Zanettin, senatore e capogruppo di Forza Italia in Commissione Giustizia, «le parole di Piercamillo Davigo sono agghiaccianti e inumane. Il suo concetto di giustizia è lontano anni luce non solo dal nostro ma anche dalla Costituzione. È una vergogna», ha chiosato il senatore. Dice la sua anche Maurizio Gasparri, senatore di Forza Italia: «Le parole di Davigo denotano una mancanza assoluta di rispetto della dignità della persona umana e del dolore delle famiglie che hanno patito quelle perdite, a prescindere dalle responsabilità di ordine penale. Non si può esercitare il ruolo di magistrato se non si antepone ad ogni ragionamento il fatto che stai giudicando un tuo simile».
Come detto, dalle parole di Davigo si è evidentemente sentito toccato anche Stefano Cagliari, figlio di Gabriele, l’ex presidente dell’Eni suicida a San Vittore dopo 134 giorni dietro le sbarre. «Il problema di queste dichiarazioni è che si basano su un ragionamento fallace -chiarisce Cagliari - in realtà il pubblico ministero non è un giudice, l’ex pm di Mani Pulite Piercamillo Davigo parla come se fosse lui a decidere se un imputato è colpevole, parla come se un imputato fosse sempre colpevole e non invece il contrario e cioè presunto innocente fino a sentenza, come vorrebbe la Costituzione».
Cagliari punta poi il dito contro il metodo Tangentopoli: «Ti tengo in carcere finché tu non dici quello che io voglio che tu dica, una tortura psicologica condannata quasi da tutti quelli che hanno analizzato quegli anni. Gardini non voleva essere sottoposto a quella tortura psicologica, ampiamente denunciata nelle lettere di mio padre, per questo si è ucciso. Ci si dimentica anche che se i metodi dei pm inducono al suicidio significa che sono metodi sbagliati, perché inefficaci, anche nell’ottica più cinica possibile, che è quella di Davigo».
Insomma, non c’era alcun bisogno, dopo 30 anni, di rinfocolare le polemiche sui suicidi durante Tangentopoli a causa degli abusi delle inchieste di Mani pulite. Davigo ne è uno dei responsabili involontari, avendo cavalcato più di altri quel giustizialismo (anche mediatico), che ha portato all’azzeramento della Prima Repubblica e al definitivo sopravvento del potere giudiziario su tutti gli altri poteri. Una patologia che rappresenta una delle principali emergenze del Paese perché incide sul funzionamento della politica e dell’economia, sulla selezione della classe dirigente e sulle molteplici dinamiche sociali.