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Il dramma dei profughi iracheni perseguitati perchè cristiani
Mentre l'Italia e l'Europa si rimpallano le responsabilità sulla gestione dei migrantu provenienti dalla Libia e dalla Tunisa, ci si scorda la tragedia degli iracheni, in maggioranza cristiani perseguitati costretti a fuggire dalle proprie case. Una situazione sottovalutata da troppo tempo.
Attualità
04_05_2011
Da settimane si parla molto di profughi e del principio secondo cui un singolo Paese non può essere lasciato solo ad affrontare emergenze come quella che abbiamo visto a Lampedusa. Principio ovviamente sacrosanto. Se però lo prendessimo sul serio dovrebbe diventare anche l'occasione per un esame di coscienza rispetto a un'altra situazione ancora più tragica, sulla quale siamo bravi a parlare ma un po' meno a condividere le responsabilità. Mi riferisco al dramma dimenticato dei profughi iracheni, che in buona parte sono poi gli stessi cristiani perseguitati le cui sofferenze dovrebbero starci particolarmente a cuore.
Quando parliamo di Iraq, infatti, parliamo spesso delle centinaia di migliaia di persone che - dalla guerra del 2003 e fino alle tragedie molto più recenti - sono stati costretti a fuggire dalle loro case. Forse però sarebbe ora di cominciare a domandarci anche dove siano andati a finire. Scopriremmo che il contingente più grosso si trova tuttora nei campi allestiti in tutta fretta nei Paesi vicini durante la guerra del 2003: le stime più attendibili parlano di 450 mila profughi iracheni che vivono ormai da anni in Giordania e altri 150 mila in Siria. Molti di più, dunque, dei 30 mila arrivati a Lampedusa. Sono persone che si trovano sostanzialmente in un limbo: entrambi Giordania e Siria non sono firmatari della Convenzione per i rifugiati e quindi lo status giuridico degli iracheni presenti entro i loro confini è alquanto precario. Sopravvivono sostanzialmente grazie all'aiuto delle organizzazioni umanitarie internazionali (ad Amman in prima linea c'è Caritas Giordania, con il sostegno anche di alcune ong italiane).
Di tornare sui propri passi non se ne parla: secondo un sondaggio condotto dall'Alto Commissariato Onu per i rifugiati il 95 per cento di questi iracheni non ha nessuna intenzione di ritornare nel proprio Paese, dove soprattutto per le minoranze i pericoli restano ancora altissimi. Il sogno di tutti è ottenere un visto per un Paese terzo, ma è una speranza abbastanza vaga: gli stessi Stati Uniti - il Paese che in questi ultimi anni ha aperto di più le proprie porte dopo aver allentato appositamente nel 2007 per gli iracheni le restrizioni all'immigrazione - ne ha accolti in tutto 60 mila. In Europa, poi, le cose si stanno mettendo particolarmente male: anche la Svezia, il Paese che sull'onda dell'emozione della guerra si era dimostrato più disponibile ad accoglierli, ora è diventata molto restia a riconoscere loro lo status di rifugiati. Così da tempo ormai sono scattate le espulsioni: l'agenzia europea Frontex - quella chiamata in causa più volte in queste settimane - nel mese di marzo, d'intesa con il governo svedese e quello britannico, ha ripreso i rimpatri a Baghdad. Una misura che era stata sospesa a ottobre dopo un pronunciamento della Corte europea dei diritti umani secondo cui l'area della capitale irachena è troppo pericolosa per poter accogliere dei rimpatri. Ma è bastato che passasse l'onda dell'emozione per la strage avvenuta nella cattedrale di Nostra Signore del Perpetuo Soccorso per ricominciare come se niente fosse.
Di fatto, dunque, oggi i profughi iracheni che hanno lasciato il Paese restano bloccati in Giordania e in Siria. Due Paesi che - è quasi superfluo ricordarlo - vivono proprio in queste settimane una fase molto travagliata sull'onda delle rivolte che stanno scuotendo tutto il mondo arabo. Quella che gli iracheni hanno di fronte è dunque una situazione senza prospettive e con una comunità internazionale che sostanzialmente guarda altrove. Lo racconta molto bene questo reportage dai campi profughi di Amman pubblicato dal settimanale americano National Catholic Reporter. Che lancia anche un altro allarme molto serio: gli stessi fondi messi a disposizione dai Paesi donatori per l'assistenza a questi profughi stanno diminuendo. Mentre invece dall'Iraq - anche in forza delle violenze degli ultimi mesi - la gente continua ad arrivare.
«È una crisi ampiamente sottovalutata - denuncia Bob Carey, vice-presidente dell'International Rescue Committee -. Ci si illude che la situazione stia migliorando, ma le cose non stanno affatto così». «Non c'è una exit strategy per questi rifugiati che vivono fuori dall'Iraq - gli fa eco Vivian Manneh del Catholic Relief Service, la Caritas statunitense -. Se davvero le truppe americane lasceranno il Paese alla fine di quest'anno che cosa succederà di loro? Resteranno intrappolati in questo limbo? Quello che so è che i Paesi in cui si trovano non vogliono replicare il copione dei profughi palestinesi». E i cristiani rischiano ancora una volta di essere i primi a pagarne le conseguenze.