Il desiderio umano è un trampolino verso Dio
“Grandezza di Dio e dignità dell’uomo” sono mirabilmente espresse nella concezione medievale. Che Dante sublima nel Convivio e nella Commedia. I desideri umani sono dunque come gli strati di una piramide, ciascuno dei quali è necessario per arrivare a prendere coscienza del desiderio del bene per eccellenza, Dio stesso.
“Grandezza di Dio e dignità dell’uomo”, basterebbero queste poche battute per definire efficacemente lo spirito di un’epoca, quella medievale in cui, per la prima e forse unica volta nella storia, convivono armoniosamente due visioni apparentemente opposte: teocentrismo e antropocentrismo, per di più in intima connessione e reciproca dipendenza. Un’epoca in cui l’uomo è pienamente consapevole di svettare al di sopra di tutti gli esseri viventi in quanto cosciente di essere stato voluto e creato da un Tu che l’ha chiamato amorevolmente alla vita e, come nell’esperienza di un amore grande, anzi, in questo caso, di un amore “primordiale”, l’io prende coscienza di sé, della sua dignità e matura, proprio all’interno del rapporto con il Tu che lo costituisce. Una consapevolezza profonda, particolarmente radicata nell’uomo medievale (dal più dotto al più semplice) e che troviamo mirabilmente espressa nella poetica di Dante.
L’importanza del fattore umano, la positività del reale, sono elementi che permeano le opere dantesche, fino a caratterizzarle e manifestano l’esperienza profonda, personale, umana e spirituale del rapporto con un Dio che si è reso non solo “manifesto” ma “incontrabile” nel dato reale, venendo a vincere in sé, ogni contraddizione, ogni dissidio tra carne e spirito, risolvendo, anzi, in se stesso due realtà da sempre considerate in un perenne ed inevitabile rapporto conflittuale.
Lo sguardo di Dante è, insomma, lo sguardo dell’uomo medievale che percepisce il reale come luogo della teofania di Cristo e per questo ne ha una visione positiva, motivo per cui il Poeta indica in un elemento “umano troppo umano” (direbbe qualcuno..) ovvero il desiderio, il trampolino di lancio privilegiato per arrivare a Dio.
Una dinamica, quella del desiderare, che è mirabilmente descritta nel IV trattato del Convivio in cui viene individuato in quest’atto che caratterizza l’uomo, rispetto a tutti gli altri esseri viventi, il motore che lo indirizza verso la Meta: Onde vedemo li parvuli desiderare massimamente un pomo; e poi, più procedendo, desiderare uno augellino; e poi, più oltre, desiderare bel vestimento; e poi lo cavallo; e poi una donna; e poi ricchezza non grande, e poi grande, e poi più. E questo incontra perché in nulla di queste cose truova quella che va cercando, e credela trovare più oltre. Per che vedere si può che l'uno desiderabile sta dinanzi all'altro alli occhi della nostra anima per modo quasi piramidale, che 'l minimo li cuopre prima tutti, ed è quasi punta dell'ultimo desiderabile, che è Dio, quasi base di tutti. Sì che, quanto dalla punta ver la base più si procede, maggiori apariscono li desiderabili; e questa è la ragione per che, acquistando, li desiderii umani si fanno più ampii, l'uno appresso dell'altro, poi un bel vestimento, poi il cavallo, poi una donna e poi ricchezza non grande e poi grande e poi più (Convivio IV, XII, 14-16).
Dante, qui intende descrivere i desideri umani come gli strati di una piramide, ciascuno dei quali è necessario per arrivare a prendere coscienza del desiderio del bene per eccellenza, Dio stesso. In quest’ottica, nessuna delle cose agognate, nemmeno la più semplice, come il “pomo” desiderato dai “parvuli”, è inutile perché rappresenta l’ulteriore gradino di una scalinata che porta direttamente a Dio. Allo stesso modo, Beatrice, per Dante, rappresenta uno dei gradini fondamentali in questa straordinaria scalata verso Dio e per questo non ha bisogno di essere rinnegata come Laura, la donna amata da Petrarca. Dante, insomma, volendo arrivare a Dio, comprende che non può perdere l’amore per la sua donna che è uno straordinario trampolino di lancio verso di Lui. Anzi Dante ha l’ardire di portare l’amore di Beatrice dentro il cuore di Dio, cucendo l’amore umano dentro il cuore del Creatore, spingendosi fino a presentare Beatrice come colei che gli fa fare esperienza di Cristo, del Divino.
Ciò è estremamente evidente nel I Canto del Paradiso in cui Dante fissa lo sguardo di Beatrice che a sua volta fissa le sfere celesti Beatrice tutta nell’etterne rote/ fissa con gli occhi stava/ e io in lei le luci fissi di là su rimote: è nello sguardo della sua amata, irradiato dalla luce divina, che Dante ritrova l’unità del suo io, perché negli occhi di Beatrice viene stabilito, in quel momento, il contatto tra cielo e terra. Dante sperimenta l’unità di sé, della sua dimensione umana e spirituale, attraverso lo sguardo che Beatrice gli rimanda della sua esperienza del divino che si sta compiendo in quel preciso istante, perché Beatrice, nell’opera di Dante, rappresenta la massima realizzazione dell’umano, trasfigurato in Dio.
Questo ci fa comprendere come per il sommo poeta, l’uomo non si salvi “nonostante” la realtà ma “attraverso” la realtà, perché, grazie al Mistero dell’Incarnazione, la realtà assume un significato altissimo divenendo segno di Dio stesso. E’ quello che dice esplicitamente san Francesco nel “Cantico delle creature”, quando tesse le lodi di ciascun elemento del creato perché De te, Altissimo, porta significatione. Quindi in Dante e nel Medioevo, la concezione della positività della realtà deriva dalla consapevolezza che l’uomo, più di tutte le creature, ha una sua dignità, una sua statura, un valore irriducibile, in quanto voluto nella sua singolarità da Dio.
E l’uomo nel suo rapporto privilegiato col Creatore di cui è coerede e figlio amato, è il protagonista del Salmo 8: Se guardo il tuo cielo, opera delle tue dita, la luna e le stelle che tu hai fissate, che cosa è l'uomo perché te ne ricordi, il figlio dell'uomo perché te ne curi? Eppure l'hai fatto poco meno degli angeli, di gloria e di onore lo hai coronato: gli hai dato potere sulle opere delle tue mani, tutto hai posto sotto i suoi piedi. Versi poetici e ispirati che intendono dirci che solo guardando il cielo e le stelle, solo sollevando lo sguardo verso Dio, l’uomo entra in rapporto col proprio io, perché può fare davvero esperienza di sé, unicamente attraverso l’Infinito. Insomma siamo di fronte alla versione “scritturale” di ciò che afferma in modo deciso e stringato san Tommaso D’Aquino nella Somma Teologica quando dice che L’io è capacità di rapportarsi a ciò che non è l’io e che L’anima conosce quando si attua, quando cioè incontra ciò che conosce, non prima.
Un po’ come la primissima forma di esperienza del sé che fa il neonato quando incontra il “tu” della mamma che lo allatta: lo sguardo della mamma che lo nutre e che il bambino incontra, ha la funzione di uno specchio ovvero quella di restituire al piccolo che vi guarda dentro, la propria immagine riflessa. Allo stesso modo, ci dice san Tommaso, l’io fa esperienza di sé solamente nel rapporto col Tu. Si evince, dunque, che nella dinamica io-Tu, l’io non è semplicemente uno dei due poli del rapporto ma è il rapporto stesso. Di qui la grandezza del soggetto - come afferma Costantino Esposito nel suo saggio “Finito-Infinito” in cui analizza il rapporto tra l’uomo e il Mistero e come ci insegna Dante - perché soltanto un io così consapevole può riconoscere qualcosa che è più grande dell’io; soltanto un io che abbia coscienza della sua capacità di rapportarsi al tutto può far spazio a che la realtà, il mistero, l’infinito possa venirgli incontro.